Una decina di anni fa con alcuni amici discutevamo sull'esplodere della rete e dei social con posizioni diverse tra l'entusiasmo e un atteggiamento più cauto.
Infondo proprio dai social coglievo alcuni elementi che mettevano qualche freno all'entusiasmo sulle nuove piazze democratiche e alla possibilità di allargare le proprie relazioni in un mondo più vasto.
Mi permettevo all'epoca di porre alcuni interrogativi grazie ai quali ero redarguito con l'epiteto di apocalittico, secondo la celebre espressione di Uberto Eco anni sessanta.
L'epiteto era ingiusto anche perché sono stato sempre un conoscitore ed un entusiasta utilizzatore delle nuove tecnologie, che ho sempe considerato come una forma di espansione di tante capacità cognitive e relazionali.
Le mie preoccupazioni nascevano da alcune analisi provenienti dall'antropologia e dalla filosofia, in riferimento a ciò che è considerato il "paradosso antropologico" che a partire dalla contingenza dell'essere umano manifesta due istanze fondamentali: da una parte
l'apertura, che spinge l'essere umano a esplorare e sperimentare ogni possibile dimensione mondana e, più ancora, a regolare la propria forma di vita sulla virtuale infinità di queste dimensioni
e dall'altra l'istanza di protezione, che spinge a ritagliare un mondo nel mondo, a perimetrare una nicchia, tracciando un netto spartiacque tra le figure familiari al suo interno e lo sfondo indistinto che essa esclude (1).
Una sorta di schizofrenia perenne per cui da una parte la necessità ci spinge ad affrontare l'indefinito (minaccioso anche) e dall'altra il continuo tentativo di sezionare, scindere, isolare, separare, costruire spazi circoscritti – pseudoambienti, nicchie, micro-mondi e enclave di vita.
Se si osserva lo sviluppo dei social quelle mie intuizione tendono ad essere confermate. Infatti la tendenza più ampia è che di fronte alla complessità della realtà personale, sociale e politica si preferiscono forme chiuse e ripetitive.
La semplificazione riduttiva induce alla perdita di un linguaggio comune, con termini che non assumono più lo stesso significato, accentuando gli elementi d’ incomprensione, con la conseguenza di relazionarsi solo a chi la pensa in modo simile, mentre il resto del mondo è confinato nello spazio ostile del nemico sconosciuto.
Dentro questa frantumazione linguistica e sentimentale (nel senso di un sentimento comune) subentra la politica che, ormai, ha in mano le chiavi per poter attraversare queste nicchie e soffermarsi in ognuna di essa per usare linguaggi e termini che vanno a confermare il sentimento esclusivo di appartenenza, privilegiando spesso gli elementi più viscerali e meno razionali.
È questo una direzione ineluttabile? Io penso di no. Ora se i due termini del discorso non sono riducibili l'uno all'all'altro si implicano, però, vicendevolmente. Il che vuol dire che l'eccessiva chiusura può risultare estremamente nociva da qui la necessità di rivolgersi ad orizzonti più aperti che vanno favoriti in qualsiasi modo a partire da formule che permettano una riconnessione dei linguaggi e da una politica con orizzonti più ampi, pronta a ripristinare o costruire nuove interconnessioni, per rispondere "alla contingenza del mondo".
Inviato da Iphon
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