mercoledì 10 luglio 2019

Meritocrazia. Un equivoco mistico-teologico-capitalistico

C'è una parola che circola in bocca ai politici nelle campagne elettorali e nei salotti sciocchi della tv, nonché ormai fra la senilità precoce dei Social: Meritocrazia.

Pronunciarla è come avere tra le mani una panacea di tutti i mali burocratici, economici, sociali e culturali.

Vediamo in superficie e in profondità da quali equivoci questo termine è circondato.
Banalmente se si chiedesse a chiunaque "chi merita?" la risposta sarebbe negativa. Gli altri non meritano mai niente e, se non lo si dice sfacciatamente, si sottintende e "perché io no?".

C'è poi un'altra retorica che riflette un preoccupante principio aziendalistico e cioè chi merita va avanti. E ci si chiede e i figli, nipoti, amici di...?

Nell'epoca dell'ideologia dell'imprenditore di se stesso, la figura dell'imprenditore tout court assume una visione salvifica.

È l'idea di meritocrazia in sè, invece, che è "malata" sin dentro la sua origine spirituale ed economica.
Infatti il termine è di derivazione teologico, trasposto in economia secondo la contrapposizione al merito si oppone, con una certa spietatezza, la colpa.

Così come in ambito teologica si apre una battaglia tra coloro che sono meritevoli (e dunque premiati dal divino) e coloro che invece sono condannati, a prescindere, secondo predestinazione.

Nella battaglia teologica altri campi si sono affrontati (magari senza troppi successi) rispetto a come fare fruttare i talenti (perché non ci sono meriti senza talenti) ad incominciare dall'interpretazione della parabola del figliol prodigo in cui si celebra la misericordia, aspetto che viene tralasciato secondo un certo spirito del capitalismo attuale, che investe di sè tutta la società per cui i "miserabili", cioè "poco talentuosi" sono vittime delle loro miserande colpe.

Una condanna, dunque, spirituale ed ideologica della peccaminosa povertà.

Ma chi decide quali sono i talenti più rimarchevoli?
Agostino rimproverava Pelagio, suo eretico avversario, che i talenti sono un dono di Dio, e non merito nostro, sono molteplici e dunque i meriti sono di altra e più alta derivazione a noi farli fruttare e dimostrare gratitudine nello stesso modo con cui li si è ricevuti gratuitamente.

L'inverso, che fa del talento un merito, crea disprezzo e condanna per chi non ce l'ha.
E poi quali sono i talenti che contano?
Ecco se prevale lo spirito capitalistico, così com'è, prevalgono quelli della sola utilità e si disistimano quelli della compassione, della disponibilità, dell'altruismo nella corsa alla competizione, giustificando la discriminazione con la condanna.

La società non vive di sola competizione, grazie a Dio, e i talenti per dare frutti hanno bisogno di terreno fertile, di quegli spazi di opportunità che la società deve offrire a tutti come possibilità di una esplicazione delle varie dimensioni dell'umanità degli uomini e delle donne che vivono in società.

Don Milani, per restare nell'alveo religioso, raccontava di Pierino, il figlio del dottore, che aveva in casa tanti libri e talenti a portata di mano e dei figli dell'operaio o del contadino che conoscevano poche parole e non potevano esprimere i loro talenti per cui era necessario creare e dargli tutte le opportunità possibili.

Forse, anzi è il caso di non usare un termine che giustifica in modo così plateale l'ingiustizia sociale e morale per pensare a forme di giustizia che aumentino la collaborazione e solidarietà.

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