martedì 12 maggio 2020

#MutazioniCovid19. Sei racconti all’alba dell’era Coronavirus

Mutazioni indesiderate indotte da CRISPR - Le Scienze

Francesco Scaringi

13 marzo · 

#MutazioniCovid19 (n. 1)


Molliccio

Già lo scarafaggio. Mutazione in un insetto, che vive a contatto con i pavimenti e circola tra le immondizie. Adesso mi ricordo è il personaggio della Metamorfosi di Kafka.

Però avverto una strana sensazione. Cerco di guardarmi intorno e una luce mi offusca la vista e mi impedisce di vedere lontano. Solo pulsazioni luminose che si alternano lasciando piccole scie verdastre che a volte si affastellano altre si diradano senza un preciso ritmo. Aritmia e pulsazioni sparse.

Fluttuo senza una direzione precisa.

Mi sento stracco come quando schiacciato dal sonno non avverti più la conformazione del tuo corpo.

Amorfo e nello stesso tempo mutevole.
Delle mie estremità tentacolari, organi voraci e insaziabili, ondulano lentamente portandomi a spasso per di qua e di là.

Mi sento strano e non riesco a determinare la consistenza del mio corpo mentre fluttuo nel liquido liquoroso circostante.

Forse sto sognando eppure è così reale. Cerco di pizzicarmi ma non ci riesco.
Non so dove localizzare il mio impulso.
Risucchio e qualcosa si deposita al mio interno.

incomincio ad irrigidirmi assumendo una forma sferica. Qualcosa si agita in un specie di sacca viscerale. Esplodo e come fuochi d'artificio fuoriescono piccoli cloni alcuni si allontano altri si fondono. È un continuo rimescolamento.

In lontananza sento suoni confusi a rumori. Alcuni si ripetono come un balbettio di bambini "am ba ee am ba e ba ma".

Finalmente, se pur lentamente gli occhi si aprono leggermente, infastiditi da un flusso di luce intensa. La tv è accesa. Scorrono delle immagini.

Guardo poco lontano dal divano, sfaldato per terra il libro dei racconti di Kafka. L'ipad sul bordo del divano mi segnala l'arrivo di mail e messaggi. Sto per sollevarmi e finalmente sento le voci provenienti dallo scherma televisivo. Risuona distintamente una parola: AMEBA. Trattasi di un documentario scientifico.
Che strano eppure mi sembrava così reale.

Prendo lo smartphone e il mio dito touch sull'icona di Facebook.

 

Francesco Scaringi

14 marzo · 

#MutazioniCovid19 (n. 2)


Sinuoso.

Uno sguardo a twitter. Quel babbeo non la smette di dire sciocchezze con quel suo ciuffo biondastro e il sorriso da guappo di periferia. Merda.

Scendo giù per il vicolo dove sta il mio garage sovrastato da enormi palazzi di cemento armato. Un nuovo immenso scheletro di un fabbricato mi sta di fronte.

Penso che questo sia un esempio di horror vacui, ovunque c'è vuoto, un buco in questa città, spunta una costruzione mentre sono spariti ogni lembo di natura libera.

Mi muovo dinoccolato, come una fisarmonica che si allarga e si restringe mentre l'orizzonte si fa più basso.

Non avevo mai notato, scendendo per questa strada, tanti buchi, antri "caveosi" nel cemento.

Dov'è il mio garage e la mia auto? Un attimo di disorientamento, chissà forse è l'effetto postumo della sbronza notturna. La sensazione e l'abitudine mi dicono che bisogna scendere sempre più giù, sino in fondo.

Strano silenzio, interrotto da vibrazioni che provengono dal suolo. I'addome è freddo, e come da bambino mi sembra di strisciare per terra sul pavimento di casa.

Davanti qualcosa si muove fastidioso a mo' di tergicristallo, trasmette informazioni sulla mia posizione e l'ambiente circostante.

Mi meraviglio di me stesso. Non pensavo di essere così agile e sinuoso.

D'un tratto scomposto in più tratti dallo sguardo, mi appare, non troppo lontano, forse ad una quindicina di metri, uno strano essere.
Parte di riflesso un impulso dal mio ipotalamo - arcaica zona del cervello - che raggiunge le mie viscere mentre non posso fare a meno di fissarlo.

Mi avvolgo a spirali concentriche tenendo il capo diritto e gli occhi puntati su quell'essere mai visto nei paraggi.

Osservo immobile.
Sta aggrappato con specie di artigli ad un ramo dell'unico alberello in zona, a testa in giù come un grosso sacco capovolto. Una specie di sorcio rannicchiato su se stesso avvolto da uno strano mantello. Vagamente mi ricorda quello di Batman.

Lo sguardo ne è attratto inesorabilmente.
Acuisco la concentrazione per notare movimenti sospetti. Tutto è fermo. Mi distendo dentro un solco di cemento che punta dritto verso l'albero, nella landa cementificata. Nel frattempo i succhi gastrici gorgogliano e mi sorprende una atavica fame.

La preda, sciocca, sta lì immobile. La soppeso. Consta di vari chilogrammi.
Provo a divaricare il mio stomaco, o quel che sia, per verificarne la capienza. Rassicurato avanzo.

Sono quasi sotto all'ignaro pasto.
Come d'incanto la mia bocca si apre a dismisura prendendomi di sorpresa per la flessibilità dell'articolazione. La parte posteriore del palato, staccata dal cranio si sposta all'indietro aumentando a dismisura la cavità boccale.
Ingoio tutto di un colpo con grande sforzo e felicità per una preda così facile ed in carne, almeno penso così mentre la forma della poverina s'intravvede sui miei fianchi. L'avvinghio con le mie spire e sento il rumore secco del frantumarsi delle sua ossa.

Strisciando raggiungo lentamente il mio garage a pochi metri da lì. Entro in auto e soddisfatto mi accoccolo sul sedile posteriore per un piccolo riposino digestivo.
Mi sento potente e furbo cosi trend della mio insolito pasto. Mi rilasso sonnecchiando.

Qualcosa mi disturba. È acidità di stomaco? Magari il mio solito fastidioso riflusso esofageo- mi dico tra me e me.

Senza rendermene conto è passato del tempo, qualche ora forse.
Il dolore si fa però più lancinante. Riesco a spostare appena la testa per guardare il resto del mio corpo.

Nel bel mezzo dello stomaco un buco enorme, pullulante di piccole teste di simil-sorci (cloni) che ridacchiano mentre mordono e strappano con i loro dentini aguzzi la mia carne. Urlo disperatamente paralizzato e sanguinante nella mia auto al chiacchiericcio ridanciano di una trasmissione radiofonica. Forse Fiorello.

 

Francesco Scaringi

16 marzo · 

 #MutazioniCovid19 (n. 3)

 

Geometrico

Sonnellino sul divano. Dire divano è un po' esagerato. Un pronto letto in un micro appartamento come soccorso per ospitare qualcuno.

Comunque è il momento giusto perché la schiena, sofferente per una cattiva manipolazione di un osteopata incapace possa trovare pace e finalmente sonnecchiare in relax.

Uno spiffero mi sfiora il volto disturbando il mio riposino. Penso di aver lasciata aperta la finestra della veranda. La cosa mi scoccia un po'.
Socchiudo gli occhi, effetto caleidoscopio. Desisto. Torno a sprofondare nel cuscino.

Fastidio. Una vibrazione intensa, un ronzio, mi fa passare immediatamente dal sonno alla vigilanza assoluta. Una specie di sublimazione mentale, come in fisica dallo stato solido a quello gassoso, pronto a scattare come una molla.

Sento il mio corpo diviso in due parti distinte, tenute insieme da un tubicino che lo attraversa. Strana sensazione, non mi sono mai sentito così.

Guardo intorno a scatti con movimenti segmentati e rapidi. Traccio, con istintiva capacità, una serie di coordinate geometriche che focalizzano l'insetto che svolazza.

Verifico che si tratta proprio di una mosca o sicuramente di qualcosa che le rassomiglia.

Con mente cartesiana ricombino le traiettorie ne viene fuori uno schema dei probabili posizionamenti dell'insetto. Le sovrappongo come coordinate geografiche per individuare il punto dove appostarmi per piazzare una trappola. Voglio mangiare.

Il punto risulta essere lo spigolo sulla porta della veranda in alto a destra.
Se mi sposto rapidamente, penso, non potrò essere individuato e potrò portare a termine il mio succulento piano.

Mi serve un percorso il più breve possibile. Immagina la stanza come una scatola che tagliata agli spigoli può essere riportata ad una figura piana. Traccio idealmente una retta tra me e il punto individuato in tal modo ottengo il percorso più breve. Sono molto soddisfatto delle mie capacità geometriche e di calcolo.

È il momento di agire ma ho difficoltà a muovermi. Con sorpresa mi rendo conto che devo coordinare otto unità articolari di mobilità.
Mi esercito un po' ma la cosa mi viene istintiva. In breve tempo sono già in pieno possesso delle mie articolazioni.

Con rapidità seguo la traiettoria tracciata raggiungendo così, in un battibaleno, lo spigolo del balcone.

Mi apposto. Da una piccola fessura sottostante al mio addome fuoriesce un filamento vischioso che sembra elastico e molto resistente.
Penso, da fine tessitore, che il filo bavoso può aiutarmi a costruire una trappola per catturare il nudo pasto.

Così lego l'estremità del filamento ad una piccola sporgenza della spigolo e arditamente appeso ad esso mi lancio per raggiungere, secernendo altro filo, la mensola della libreria dall'altra parte.

Freneticamente inizio a costruire una struttura filamentosa vischioso a mo' di spirale, fitta ed elastica pronta a intrappolare qualsiasi cosa ci finisca dentro. Ne viene fuori una magnificenza geometrica.

Mi apposto alla sua estremità. Fiero e con le mascelle forti e protese, che alleno con lenti movimenti. Sono pronto a sgranocchiare qualcosa appena se ne presenti l'occasione, che non tarda ad arrivare.

Infatti la fastidiosa mosca plana inavvertitamente propria al centro della mia geometrica trappola. La vedo dimenarsi e invischiarsi nell'abbraccio mortale dei filamenti.

Con possanza, ma lentamente, dal mio angolino mi dirigo verso di lei guardandola fissamente e agitando le mascelle per indurle paure e avvertirla che è il momento della sua fine. Sarà il mio pasto della giornata.

Sono ormai a pochi centimetri. Una bella preda grossa e robusta. I suoi occhi a palla sono ricoperti di una membrana scura. Penso che sia finita.

Avanzo ormai sicuro. D'un tratto le membrane si sollevano e compaiono due enormi occhi rossi fiammeggianti. Mi blocco.

Accenna ad un sorriso beffardo, dalla bocca spuntano piccoli, aguzzi e affilati dentini che iniziano a tagliuzzare freneticamente il filamento intorno a lei.

Mi rendo conto che la situazione si fa minacciosa. Ho paura e nel frattempo per incontinenza, senza rendermene conto, secerno una grossa quantità di filamento.

Avanza verso di me aprendo e chiudendo ritmicamente le sue mascelle ricoperte di una quantità enorme di affilati dentuzzi.

Cerco d'indietreggiare ma non ci riesco, solo adesso mi rendo conto che sono incastrato e immobilizzato dal mio stesso filamento.

Mi divincolo, ho paura. C'è un forte ronzio accompagnato da uno spostamento d'aria. Volto appena lo sguardo verso la veranda e intravedo un nugolo ben nutrito di mosche che procedono verso di noi.

Un solo istante per girarmi mentre lei afferra con la sua bocca un mia zampetta strappandola. D'un tratto sono sommerso da decine di creature fameliche.

Nel ronzio assordante sento il motivetto della suoneria dello smartphone mentre nel sottofondo una canzone proveniente dalla radio, o dalla televisione (o forse dal balcone adiacente). È Adriana Celentano che canta Azzurro.

 

Francesco Scaringi

18 marzo · 

#MutazioniCovid19 (n. 4)

 

Liquido

Piove. Pomeriggio inoltrato di un tardo inverno primaverile. Una pioggia stitica e mefitica. Tutto è scombinato come il tempo atmosferico e quello cronologico, come lo scioglimento dei ghiacciai e le varie imprevedibili perturbazioni o le precipitazioni che assumono carattere monsonico.

Non sono qui per fare l'ecologista o il meteorologo dell'ultima ora. Una semplice constatazione che poi ognuno prende, cazzo, come meglio crede.

Metto su, sbracato e non ancora rassettato, la macchinetta del caffè sul fornello, nella veranda-cucina del mio minuscolo appartamento. Nel frattempo, dal mio settimo piano sulla scarpata della collina, guardo il paesaggio come da dentro una minuscola cabina di una astronave. Posso sorvolarlo e dall'alto cogliere i repentini mutamenti che ha ricevuto e continua a ricevere nel corso del tempo.

M'innalzi sulla circonvallazione, che taglia l'ancora residuo pezzetto di verde sottostante, che declina verso il fondo della vallata, verso l'altra parte della città, posizionata su una collina anch'essa, destinata, ormai, a riempirsi di centri commerciali.

Sulla sinistra s'intravede la grande scala mobile (una delle più lunghe del mondo) sproporzionata ed inefficiente per la città, che collega le due colline su cui si compongono i centri più abitati della città, il centro storico, nel quale vivo, e una delle prime periferie dei dintorni, ormai diventata un quartiere centrale ed autonomo.

In fondo, verso l'orizzonte spunta la foresta delle enormi pale eoliche che, impiantate a decine dalla speculazione sul rinnovabile, ambiguamente deturpano il paesaggio e nello stesso tempo ne danno una inquietante connotazione.

Il rumore della caffettiera mi annuncia, con il supporto dell'aroma, che il caffè e pronto. Una bella tazza mi scuoterà da questo torpore molliccio, poi scaricherò la mia vescica. È il mio rito a cui non so sottrarmi come allo spinello serale per un mediocre benessere.

Tic, tic. Lo sgocciolio viene dal rubinetto del lavabo. Con piccoli sorseggi gusto e finisco il mio caffè. Il ticchettio del rubinetto si fa intenso.

Mi giro per stringere la manopola. Sul fondo del lavabo vedo una cosa, forse un vermetto, nero e dall'aspetto arruffato.

Mi avvicino per osservarlo con più attenzione e curiosità. Un po' mi fa schifo un po' mi da l'impressione di un esserino disarmante come quei cuccioli di cane appena nati con gli occhi chiusi e che cercano famelici il capezzolo della madre.

Ad un tratto sobbalza. Si contrae ad arco sulle sue estremità e fa un balzo.

Strana bocca circolare e sembra provvista di una ventosa.
Continua con i balzi facendo risuonare con un sordi tonfi il lavabo.

Ma da dove cazzo viene- mi chiedo? Eppure ho disinfettato dappertutto. Forse dal vasistas aperto della verandina per far circolare l'aria.

La pioggia s'intensifica e un lampo avvisa l'arrivo di una terribile scarica di tuoni secchi e ravvicinati.

Ploff! Dal rubinetto cade sul fondo un'altro esserino. Ploff un altro ancora. In pochi secondi un flusso continuo di quei cosi riempiono il lavabo tracimando sul pavimento.

Istintivamente mi guardo intorno alla ricerca di una chiave d'arresto e già i miei piedi sono ricoperti da piatti e viscidi vermetti appiccicosi che con la bocca a ventosa si attaccano al mio corpo affondando i loro dentelli, nella carne. Cerco di muovermi ma non ci riesco. Anestetizzato cado stramazzato al suolo, ricoperto subito completamente dalle creature.

Non sento alcun dolore. Vago galleggiando in un liquido amniotico in uno stato di catarsi.

Alleggerito mentre il mio corpo si svuota di tutti i liquidi.
I rumori si fanno lontani e le voci dalla tv più fievoli, resta nell'aria qualche debole nota dell'inno nazionale.

Compare un bagliore sullo sfondo nero che sprofonda e si rimpicciolisce sempre di più. Tic si spegne. È il nirvana.

 

Francesco Scaringi

20 marzo · 

#MutazioniCovid19 (n. 5)


Leggero

La sveglia dello smartphone, come programmato, alle otto mi rompe. Ma non ho voglia di alzarmi, ho visto fino a tarda notte molti episodi di Black Mirror su Netflix.

Ma così è, l'impellenza intestinale mi spinge al bagno per una rapida evacuazione.

Faccio toilette e poi scendo giù al bar per la colazione.

L'abitudine mi ha fatto un brutto scherzo. Le strade sono deserte e il bar è chiuso. Porca miseria. Non mi resta che tornare a casa quanto più velocemente possibile.

Sulla sinistra i ruderi del vecchio cinema Ariston, abbandonato ormai da decenni e mai più ricostruito, diventati segno della poco cura urbanistico - architettonica della città.

Quel luogo residuale ha un suo fascino e il rudere porta tracce di un'altra civiltà in cui il cinema la faceva da padrone per l'elaborazione dell'immaginario collettivo.

Proprio così. La mia è una generazione che ha attraversato varie "epoche" dall'analogico al digitale. L'analogico è il residuo, il cimelio conficcato nel nostro cuore quale momento della nostra formazione contrariamente al blob attuale.

Nostalgia di tempi non lontani. Mi rendo conto che in qualche modo la natura, selvaggia e incolta, si sta riappropriando del luogo.

È strano ma non mi era mai reso conto di come questo silenzio dia spazio agli animali non solo ai quelli domestici, cani e gatti, anche a quelli che hanno fatto della città il nuovo habitat dopo che il loro è stato occupato o ridimensionato dall'intervento degli umani.

Con la mano scaccio un moscerino famelico che mi gironzola intorno.
Guardo alcuni passeri che si sono posati su un muretto, quello più in basso dell'ex cinema, cimitero dei ricordi.

Si sente uno stridio che arriva dal parco della Villa del Prefetto.
Però il mio sguardo e catturato dall'ampia apertura alare di un maestoso uccello, che perlustra la zona. Sarà la stessa poiana che ho già intravisto volare nello spazio dirimpetto alla mia veranda planando superbamente sulla vallata alla caccia di qualche ratto. Qui sembra più nervosa e il volo è irregolare e zigzagante.

Di nuovo il garrito che assume una concitazione paradossale. Un gabbiano d'improvviso picchia verso un cumulo d'immondizia in una zona d'angolo del selvatico giardino dell'ex cinema.

È proprio vero, molte cose sono cambiate nella percezione comune. I gabbiani, per esempio, che fino a qualche decennio fa erano simbolo della libertà per il loro proiettarsi sull'orizzonte marino, ora vivono a ridosso delle discariche e sono diventati "segnalatori" d'inquinamento.

Mi gratto sul naso e mi trovo sotto le dita un moscerino. Avvisaglie di un nugolo di punti neri che vortica intorno ai bidoni della spazzatura.
Sono convinto che avranno trovato un sacco di roba buona. E nello stesso tempo anche loro possono essere roba appetitosa per i tantissimi uccelli che vivono nei dintorni.

Proprio dove ho schiacciato il moscerino avverto un prurito che non trova sollievo da una semplice grattatina. Il prurito si allarga al volto, passa al collo e scende nelle spalle.

Penso ad una reazione allergica. Alzo il palmo della mano, mi spavento. Prendo coscienza di quello che sta accadendo. Decine di moscerini si staccano dalla mia mano consumandola. In effetti mi sento più leggero mentre cresce il nugolo di insetti.

Non faccio in tempo a focalizzare che con sorpresa noto che il numero di uccelli intorno aumenta e continuo a crescere in uno strano silenzio. Molti volano, altri, posizionati sui muretti, decollano in squadriglia. Il bersaglio sono io, o meglio il nugolo d'insetti in cui mi sto trasformando. Un manto di piume, di miriadi di occhi e becchi mi avvolge. Buio totale. Scompaio, pasto aereo, mentre sento da un balcone li vicino la sigla del tg.
Dissolto.

 

 

Francesco Scaringi

21 marzo

#MutazioniCovid19 (6)

 

Letterario

Tutta questa retorica sulla cultura. "State in casa leggete, guardate film, teatro. Riempite il vostro tempo con la bellezza". Blablabla.

Questo discorso non fa che ribadire l'opinione diffusa che la cultura fondamentalmente è un passatempo, che serve in sostanza a ben poco.

MA NON LO SO. Non lo so e non entro in questa discussione.
Mai come adesso ho una forte discrasia nei confronti dei libri. Non sono farmaci di alcunché anzi paradossalmente mi annoiano.

Sto pensando a tutto questo proprio di fronte alla mia libreria che nel corso degli anni ho cercato di riempire con accuratezza e attenzione.

Adesso è scomposta, arruffata, con libri gettati alla rinfusa, che stanno li per caso con senso di inappropriatezza e illusorietà.

Giro una canna tra le dita e prima di accendere il promettente prodotto vegetale, che dovrebbe indurmi alla calma e ad uno stato di benessere, mi avvicino alla veranda.

Fuori è buio. Il paesaggio acquista un fascino rinnovato con la fondovalle senza auto scorrazzanti e le fragili luci di lampioni che si stagliano sul fondo della strada.

Il celo è intensamente stellato. Mi viene voglia di guardare, tramite un app, quali costellazioni ci sono, per cercare una corrispondenza astrale con il macrocosmo che mi circonda in questi momenti di forzata solitudine, privo anche della possibilità di un incontro sessuale.

Prendo lo smartphone per dare l'avvio all'app. Premo sull'icona, che fa fatica a partire. Desisto e mi dico: a che vale sapere il nome di un qualcosa?
Penso a gli esseri umani, anche a tanti animali e alla loro capacità di orientarsi, capacità che in sostanza mi è sempre mancata, rendendomi più propenso all'erranza casuale, come mi capita quando visito città nuove in modalità situazionista.

Vanitas vanitatum et omnia vanitas

Questa citazione latina, d'un tratto mi entra in testa come quei motivetti di un vecchio vinile incagliato che riproduce sempre gli stessi solchi.

I modi di dire possono essere l'espressione del semplice senso comune o dentro di sé possono portare antiche dispute interpretative per l'eccesso di saggezza in essi contenuta. Comunque a chi li pronuncia danno l'aria di possedere la risoluzione di qualsiasi problema.

Mentre ci penso mi avvicino alla libreria e vedo che c'è una notevole quantità di polvere depositata dappertutto. Non ci avevo fatto caso. C'è qualcosa che non mi convince. Sfioro con le dita una vecchia e un po' ingiallita edizione, una delle prime, de "L'antologia di Spoon River" tradotto da Fernanda Pivano con l'introduzione di Cesare Pavese, comprato in piazza ad un mercatino dell'usato. La prendo tra le dita e appena la tocco si frantuma come del pane carasau, finendo in mille pezzi sul pavimento.

Incomincio così a perlustrarla nelle sue varie sezioni, afferro uno dei dialoghi di Platone, Il Parmende, ma non riesco a toglierlo dallo scaffale che è già giù per terra in frantumi. Cosi mi rendo conto che i libri sono bacati e rinsecchiti all'interno. Cerco di capire quale sia la situazione generale, se non ci sia in atto una sorta d'infezione e quanti testi ne sono stati infettati.

Istintivamente prendo nelle mani il mio amato Spinoza ma anch'esso inevitabilmente mi crolla giù dissolvendosi in una nuvola polverosa.

Che strano non avverto alcun particolare sentimento. Sono pervaso da una certa indifferenza. Continuo a fumare il mio spinello, che lascia in giro un'aroma pungente. Quando vedo un piccolo esserino che sbuca con delle antennuzze da sotto i tomi contenenti tutte le opere di Shakespeare, compreso una economica edizione inglese di tutto i suoi lavori, che ho comprato tempo fa in una piccolo libreria a Malta.

Spinto da curiosità prendo la lente d'ingrandimento, che in genere uso per decifrare le impossibile grafie dei miei allievi. Mi avvicino a quella specie d'insetto e metto a fuoco.

È Minuscolo, insulso e dall'aspetto beffardo.
Ricoperto da una simil-armatura e tante piccole zampette.
Sotto la lente solleva lievemente la testolina con un paio di antenne, replicanti quelle del fondo schiena, che agita ogni qualvolta io acuisco lo sguardo.

Incuriosito lo prendo tra le dita e lo pongo sul palmo della mia mano rivolto a pancia in su. Si agita fino a quando riesce a girarsi e di scatto, a velocità supersonica, si mette a correre lungo il mio braccio ed in un attimo arriva al mio orecchio e ci si infila dentro.

Di riflesso ci ficco dentro il mio mignolo. Ma non afferro nulla. La testa mi gira forte, come quando ho fumato le prime volte.
Per non stramazzare al suolo mi appoggio scompostamente alla libreria facendo crollare uno scaffale a cui mi ero aggrappato. Tanti volumi cadono a terra e contatto con il pavimento si frangono polverizzandosi.

Guardo il resto dei libri sullo scaffale. Ad uno a uno si polverizzano, in sequenza, senza soluzione di continuità.
Anch'io mi sto polverizzando. Invano cerco di afferrare le Metamorfosi di Kafka poggiate in un angolo, non ci riesci sono già polvere sparsa.

Non provo dolore. Scomposto in una miriade di particelle polverose fluttuo nell'aria, leggero, sospeso in una esistenza privo di specificazione biologica di tipo vegetale o animale magari sono minerale, non saprei.

Fluttuo dando vita ad un vortice di polvere, come quelli che si vedono alla luce di un raggio di sole che furtivo entra in casa, sospesa a mezz'aria, pronto ad infinite combinazioni e ricombinazioni delle piccole particelle. Ultimo scorcio di sensibilità mentre davanti si offusca il faccione di Vespa stampato sullo schermo televisivo. Atarassia.

 

 

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