Una mia riflessione a margine della visione dello spettacolo di
Sergi Casero Nieto
"El Pacto del Olvido" , visto al Città delle 100 Scale Festival, il 22 ottobre 2024
Nella sua apparente semplicità e costruzione del racconto dal punto di vista teatrale (su cui torno in seguito), lo spettacolo ha saputo rappresentare tutta una serie di questioni riguardanti le "memorie difficili", vissute in Stati come la Spagna e l'Italia, rispetto al loro passato franchista o fascista. Insomma, si tratta di come siano stati fatti i conti con un passato che ha segnato profondamente la storia e la vita, anche nel presente, di un Paese, la cui memoria è stata sottoposta a vari "trattamenti" che vanno dalla rimozione alla cancellazione e all'esercizio della dimenticanza quale filosofia della vita pubblica.
Riguarda anche come di quel passato restino tracce che continuano a incidere nel presente, un fiume carsico, che fa sì che alcuni atteggiamenti vengano giustificati o accolti entro una normalità di una discussione quotidiana che affastella fatti e immaginari in modo superficiale e confuso. È interessante notare come sia possibile che si operi un sistematico revisionismo storico accompagnato da una progressiva accondiscendenza a pensieri e atteggiamenti che hanno con il passato "scabroso" una evidente continuità.
Lo spettacolo, pur parlando del franchismo e della guerra "civile" spagnola (1936-1939), può trovare similitudini con la storia italiana del totalitarismo fascista e del passato razzistico e coloniale italiano.
Emblematico, nello spettacolo di Casero, è il racconto di quando viene promulgata la legge sull'amnistia, detta El Pacto del Olvido (il patto dell'oblio, che dà il titolo alla pièce), nel 1975 dopo la morte di Franco. Una legge che ha dato ai franchisti, agli eccidi e alle deportazioni l'assoluzione in nome di una riconciliazione nazionale pacifica. Come ben si capisce nello spettacolo, questa sorta di generale assoluzione non ha fatto altro, oltre a graziare crimini politici, di guerra e genocidi, che nascondere la polvere sotto il tappeto e nello stesso tempo dare avvio a un giustificazionismo generale, che ha impedito di guardare criticamente al passato e che, all'interno dello Stato, tra le classi dirigenti, ha fatto sì che il franchismo continuasse a essere presente sotto varie sembianze. Mentre il revisionismo storico, morale e politico trovava sempre più diffusione nei media e in ambito accademico e istituzionale.
Un altro aspetto significativo dello spettacolo è come a questo abbia contribuito il sistema educativo. Emblematica è l'esposizione durante lo spettacolo di un testo scolastico nelle pagine dedicate allo scontro tra la repubblica democratica e il colpo di Stato franchista, dove è presente una retorica sofisticata e circumlocuzioni tese solo a "mascherare" e addirittura a capovolgere la verità storica nell'utilizzo di un lessico "sterilizzato" rispetto al racconto che ne viene fatto. E come queste retoriche e manipolazioni linguistiche entrino in una cultura più diffusa, verso cui gli aspetti più orrorifici, per esempio i genocidi coloniali, non vengano raccontati o narrati se non solo per quelli compiuti da altri Stati, all'epoca nel campo avverso.
In definitiva, vi è un cordone ombelicale mai tranciato che nutre una quotidianità di retoriche, simbologie e modi di essere inerenti a una società. Lo stesso vale per il discorso politico e istituzionale, entro cui hanno agito e agiscono modalità e modi di essere del passato, incarnati da forze politiche che oggi più che mai trovano consenso all'interno di una società che ha assorbito e continua ad assorbire passivamente, attraverso meccanismi di sostituzione ed edulcorazione, persino le forme più autoritarie e violente del passato.
Per quanto riguarda la situazione e l'analisi di questi fenomeni, ho trovato interessanti il lavoro e la lettura dei testi della Gravano *Di-scordare* (Deriva e Approdi 2023)
La Gravano, nel suo testo, porta a sintesi parte di una ricerca attiva in corso. Si sofferma in particolare sui lasciti del fascismo in termini culturali e artistici, che segnano il paesaggio urbano e sono connessi a forme di retoriche che hanno profondamente influenzato la vita del Paese. Ciò che oggi persiste e che ancora vive nel nostro immaginario è frutto di un'operazione con finalità ben precise, non di eventi casuali. Il libro si articola in più parti; riporto indicativamente quanto sintetizzato nel risvolto di copertina come indicazione di lettura:
"Il fascismo, e Mussolini in persona, hanno saputo utilizzare la cultura come uno strumento straordinario di consenso per costruire immaginari che potessero durare nel tempo, persino dopo la caduta del dittatore. In Italia le tracce del fascismo sono pervasive e sono più o meno palesemente presenti su tutto il territorio nazionale. Un processo di defascistizzazione imperfetto, che a livello culturale è stato particolarmente inefficace, ha fatto sì che molte delle eredità della dittatura possano continuare a parlare e a esprimere i propri valori violenti, razzisti e di potere nello spazio della quotidianità del Paese."
Il testo focalizza in particolare su come il revisionismo si manifesti nel contesto delle arti che hanno attraversato o si sono poste al servizio del regime fascista. Nello stesso tempo, conduce una "attenta analisi dei lavori di artiste/i che dagli anni Ottanta in poi si sono prese/i carico di rileggere quelle tracce, di decodificarne i significati e di farne una critica aperta, politica e concettuale."
Lo spettacolo collima con tali intenzioni. Il regista-attore ha costruito una narrazione in cui tutti gli elementi a cui abbiamo accennato sono riportati con estrema delicatezza e profondità, tramite una strumentazione scenica "vintage" ed essenziale, che assume un valore simbolico. Lampadine diffuse sul palco, un vecchio proiettore di diapositive e una lavagna luminosa: ognuna di esse ha nello spettacolo un compito preciso, tra l'evocativo e la sottolineatura riflessiva rispetto al racconto che viene fatto. Le lampadine sono accese e spente direttamente dal protagonista, a rappresentare i momenti di rischiaramento della memoria e anche i meccanismi di rimozione e oblio messi in campo sia nella narrazione soggettiva della famiglia sia rispetto ad eventi pubblici.
Il vecchio proiettore di diapositive entra in scena con immagini familiari, mentre la lavagna luminosa rappresenta gli eventi pubblici, politici e storici che hanno segnato la vita del Paese. Entrambi proiettano immagini prive di messa a fuoco, rispecchiando l'oscillare della memoria rispetto a un passato non limpido.
Il racconto soggettivo si alterna e s'intreccia con il racconto collettivo, tramite reticenze, conflitti, sensi di colpa e anche sofferenze nel confrontarsi con un passato sottoposto alla rimozione.
Il racconto trova il suo significato più profondo nel rapporto dialogico che si instaura tra il nipote, la nonna e la madre: l'interrogante nipote cerca di ricostruire un passato che non gli è stato tramandato o che ha vissuto attraverso segnali e distorsioni. La nonna è testimone del periodo franchista e la madre è protagonista di quel periodo di transizione durante il quale il passato franchista avrebbe dovuto trovare una sua elaborazione critica.
Il dialogo lascia emergere le contraddizioni (il nonno franchista su cui pesa l'ombra di aver commesso crimini e da cui deriva la reticenza della nonna) e le ambiguità della madre, donna di sinistra che ancora manifesta il conflitto aperto dalla legge sull'amnistia entro le coscienze e la militanza politica, soprattutto nella sinistra.
Durante il racconto si aprono alcuni spazi letterari che rimandano a trame più profonde, con citazioni di Jorge Luis Borges, Federico García Lorca e il test di memoria di Clara Valverde. Il racconto di Borges, "Funes, o della memoria" (1942), fa da contrappunto alla narrazione.
Dicevo della strumentazione "vintage" utilizzata dal regista per creare un'atmosfera narrativa lineare e, nello stesso tempo, ricca di rimandi e sottolineature. Mi sono chiesto come mai si sia privato di tecnologie digitali e super efficienti. Sicuramente per mantenere un confine temporale (l'epoca in cui il ragazzino, poi studente, vive l'esperienza della famiglia e comincia a interrogarsi sul passato della famiglia intorno agli anni ottanta). Penso però che faccia parte anche di una scelta stilistica, che segna l'andamento lento e riflessivo della narrazione; contemporaneamente, si sottolinea un aspetto importante che possiamo rintracciare nel racconto borgesiano. Il protagonista del racconto vive di una memoria prodigiosa, fatta di un ricordo minuzioso, fino al paradosso che ad ogni ricordo, ad ogni cosa, si debba dare un nome proprio. L'eccesso di memoria lo porta alla disperazione, sino a chiudersi in una stanza asettica e anecoica per non avere sensazioni e percezioni che potessero evocare ricordi o accumulare altri ricordi che l'avrebbero esasperato ulteriormente.
Due sono le allusioni che possiamo cogliere. La prima, di carattere critico, pone l'interrogativo: "come rapportarsi al passato?" Che tipo di memoria bisogna mettere in atto e che tipo di ricordo bisogna evocare? Oggi, come si vede, vi è un eccesso di memoria; sembra che tutte le ferite debbano essere rivendicate, e questo pone il problema se un eccesso di rivendicazione non tenga aperto un conflitto di memorie che porta a una specie di annullamento reciproco (si pensi in Italia a come la destra usi in modo distorto le Foibe contro la Resistenza - il 25 aprile - e le Fosse Ardeatine). Dall'altro lato, ci si deve interrogare se a fare i conti con il passato debba essere una storiografia del semplice cumulo di dati o se si possa porre rimedio con una memoria critica, che nel revocare il passato sappia vagliare il valore delle scelte in certi contesti politici e storici (essere partigiani ed essere fascisti non sono la stessa cosa; parteggiare per la libertà democratica è diverso che farlo per la dittatura, così come si pone un discrimine rispetto all'oscurare le nefandezze del colonialismo razzista). Dal punto di vista culturale e artistico, bisognerebbe decostruire le tracce e le rappresentazioni "artistiche" e monumentali che sono state disseminate in un articolato tessuto urbano e istituzionale, non per procedere a una "cancellazione", ma per collocarle, invece, attraverso riletture critiche, in contesti storici più veritieri, in contesti civili di maggiore consapevolezza su come quell'immaginario abbia trovato origini in regimi passati autoritari e violenti, diventando non più rappresentativo della nostra realtà.
Forse c'è ancora un'altra spiegazione sull'uso di una strumentazione di tipo analogico e non digitale da parte del regista. Riguarda sempre quanto racconta Borges con il suo racconto, che induce a una domanda a cui non è semplice dare una risposta. E cioè: quanto questa capacità di memoria che le nuove tecnologie possono accumulare è veramente significativa? Non si corre il rischio che, in un mondo in cui viviamo nell'accumulo sproporzionato di memorie-dati e in un flusso continuo d'informazione, alla fine non si corra il rischio di essere espropriati di un rapporto critico e creativo con la realtà, sia a livello individuale che collettivo?
Sergi Casero Nieto
El Pacto del Olvido
Ideazione e regia Sergi Casero Nieto. Testo di Sergi Casero Nieto con frammenti e citazioni di Jorge Luís Borges, Federico García Lorca e il test di memoria di Clara Valverde.
Interpretato da Sergi Casero Nieto. Scenografie, scene e oggetti di scena Sergi Casero Nieto. Disegno luci Sergi Casero con la supervisione e l'aiuto di Miguel Angel Ruz Velasco. Costumi Sara Clemente. Design grafico Sergi Casero. F
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