Strangers and strangeness
una bella mostra a Matera, palazzo Malvinni Malvizzi, fino al 31 luglio.
È possibile in un frangente di visibilità celebrativa concepire una mostra che più che magnificare si pone in una dimensione interrogativa e critica proprio a partire dell'ambiguità che si dà tra rappresentazione e autorappresentazione, o meglio tra un carico eccessivo del già rappresentato e il tentativo di scardinare luoghi comuni?
È questo l'interrogativo sotteso, a mio avviso, alla mostra Strangers and strangeness che si tiene Matera al restaurato Palazzo Malvinni Malvezzi, che si affaccia su una vertiginosa veduta del sasso caveoso su una delle parti più antiche dell'insediamento urbano, per la prima volta aperto al pubblico in occasione del 2021- G20.
La mostra a cura di Donato Faruolo, pensata e progettata in occasione della presenza dei "grandi della terra" a Matera, ha l'intento di essere non estranea alle problematiche dello stesso summit da una prospettiva però culturalmente originale, che pone in questione il rapporto tra locale e globale - come ha ribadito Aniello Ertico, presidente della fondazione venosina Porta Coeli, che ne è la promotrice.
Essa si situa in un momento in cui diventa sempre più necessario interrogarsi sui territori, le comunità e le varie prospettive politiche proprio in questo frangente in cui è in gioco il futuro post pandemico, un periodo che ha evidenziato la fragilità del rapporto tra uomo natura, e con il distanziamento sociale e l'abbandono degli spazi pubblici ha aperto ad un ripensamento della capacità progettuale della politica in un'ottica comune.
Per cogliere il senso della mostra bisogna sottoporsi a un doppio esercizio. Il primo di carattere preliminare riguarda il visitatore che deve, come insegna una certa filosofia, esercitarsi all'epoché, cioè alla sospensione del giudizio, o se vogliamo allo sgravarsi di iconografie stabilite e monumentali. Il secondo, proprio perché, il conosciuto è posto sullo sfondo, assumersi il rischio della "estraneità" e della "stranezza" che sposta l'orizzonte della comprensione e della rappresentazione.
In questo modo si può meglio cogliere un aspetto importante del concept che il curatore Donato Faruolo ha messo a base della mostra, intrecciando due percorsi fotografici e due architettonici, che con maggiore o minore vicinanza interagiscono fra loro.
Attraverso la fotografia si possono saggiare due visioni di "stranieri", che hanno esiti e finalità diverse, ma che inaspettatamente creano cortocircuiti di estremo interesse. I due percorsi fotografici paralleli sono uno di Henri Cartier Bresson con "Italie du Sud. Basilicata (Lucanie)", foto del fondo fotografico del Centro di Documentazione "Rocco Scotellaro e la Basilicata nel secondo dopoguerra" con sede a Tricarico; l'altro è dell'olandese, Eli Dijkers, "Tarsus", un reportage di 100 foto, frutto di una residenza offerta dalla fondazione Porta Coeli in Basilicata nel 2018.
Henri Cartier Bresson, un gigante della fotografia del 900, attraverso le sue foto, scattate in due tappe, negli anni 52 e 73, ha contribuito a costruire la rappresentazione della Basilicata. Esse sono conosciutissime, fino a diventare un contrassegno paradigmatico di una certa iconicità del mondo contadino lucano, se non addirittura alcuni tratti della "lucanità" così come stampata nell'immaginario collettivo. È una fotografia che tende al massimo della compiutezza formale e contenutistica nella genuina manifestazione espressiva del contesto umano, territoriale, antropico - antropologico.
L'olandese Eli Dijkers, s'immerge in una realtà estranea per restituirne in termini immediati, fenomenologici un qualcosa che vive sull'ambiguità del "bizzarro", dell'inatteso, dell'incompiuto, del frammentario, che si innesta in un flusso che restituisce squarci di umanità nell'atto di esistere, di ambienti segnati da piccole anomalie, di vedute cittadine e paesaggistici ritagliati entro panorami assenti, tendenti all'anonimato e all'impossibile identificazione di tempo e di luogo, di un frammisto di passato, presente e futuro, di un estremo vicino e un estremo remoto.
Non vi è nessuna intenzione di compiutezza o di edificare immagini concluse e pregnanti, rappresentative o emblematiche di una particolare realtà e umanità, anzi per alcuni versi prevale lo smarrimento tra il familiare e l'estraneità, l'appaesamento e l'estraniamento come può capitare in qualsiasi parte del mondo.
È proprio in questa duplice percezione-intenzionalità che si stabilisce un paradigma temporale nella rappresentazione della Basilicata che prende origine dal mondo contadino iniziata da Carlo Levi sino a Matera 2019, il secolo breve della Basilicata (per riprendere Hobsbawn come suggerisce il curatore Donato Faruolo). Esso caratterizza un'epoca, un frammezzo temporale non in senso cronologico, ma attraverso eventi che segnano una mutazione rispetto al passato, in cui i termini della modernità vengono rielaborati con il carico di contraddizioni che si prospettano nel presente e nel futuro e che acquisiscono una valenza non solo particolare ma universale.
Queste inquietudini sono il focus delle due installazioni architettoniche, "Metrografie" dello studio architettonico fiorentino Caret Studio e "Love is in the air" di Osa/Volumezero, studi di architettura e paesaggio di Roma e Potenza. Le due installazioni sono "evoluzione" di progetti di cui le loro prime tappe hanno trovato realizzazione in piena pandemia, trovando ispirazione dal confronto con l'interdizione degli spazi pubblici, l'impossibilità dell'incontro e il rapporto con la terra/natura.
"Metrografie" di Caret Studio è stato realizzata sulla meravigliosa terrazza del palazzo Malvinni Malvezzi, quale rielaborazione dell'istallazione in site specifc , "Stadistante", approntata nella piazza del paesino toscano Vicchio durante la pandemia nel 2020. L'installazione ha trovato ispirazione dalle regole del distanziamento sociale che hanno creato un invisibile reticolo tra le persone informando di sé lo spazio reale e in modo particolare quello pubblico. Sulla piazza di Vicchio é stato disegnato un reticolo entro cui le persone potevano stare e muoversi in sicurezza per partecipare agli eventi cittadini.
La stessa idea di reticolo ha trovato un'ulteriore rielaborazione del concept di base sulla terrazza del palazzo materano. Tale idea prende spunto dal tentativo dei geografi di costruire mappe, a partire da Gerardo Mercatore (1500) che, usando una serie di coordinate, riportò l'uso del reticolo matematico geometrico di ripartizione e collocazione degli spazi sulla stessa Terra, contribuendo così alla nascita della rappresentazione moderna del mondo in una diversa prospettiva.
Per comprendere a ampliare il senso di tutto ciò possiamo prendere spunto dal geografo-filosofo Franco Farinelli che ha mostrato come la percezione dello spazio del mondo e la sua rappresentazione si siano modificati nel tempo. A partire da quella dimensione tutta umana e temporale basata sul camminare e il tempo di percorrenza fino alla nascita della moderna cartografia quando la faccia della Terra diventa la copia della mappa, nel senso che le mappe erano in grado di produrre la realtà, piuttosto che accoglierla, descriverla e rappresentarla soltanto.
Il reticolo geometrico non solo aveva la funzione di spazializzare la superficie terrestre, oggettivandola e rendendolo omogenea, la rendeva anche disponibile e, in qualche senso, manipolabile e controllabile. È servito quindi a trasformare in maniera coerente qualcosa che ha tre dimensioni in qualcosa che ne ha due, sottraendo una dimensione alla Terra, così da segnare una frattura tra mondo/terra, spazio/luogo.
Sottolinea Farinelli che nel Medioevo le carte erano la copia del mondo, la modernità si rivela invece come l'epoca dell'immagine del mondo - per prendere a prestito una celebre frase heideggeriana. Quindi in epoca moderna, il mondo è la copia della carta, che tende a "rettificare" ciò che in realtà è curvo, a velocizzare i tempi di percorrenza. E rivolgendo lo sguardo alla storia si può constatare "come tutti gli imperi si sono tradotti in grandi sistemi stradali, tendenzialmente rettilinei per essere più veloci. Dapprima le strade seguivano la forma sinuosa dei corsi d'acqua, ma dal '700 in poi esse si autonomizzarono appunto perché diritte".
C'è un'altra osservazione che si cogliere in Farinelli che si avvicina molto all'intento dell'installazione. In un passo della "Crisi della ragione cartografica" (Einaudi,2009) individua il modo in cui opera la rappresentazione, istituendo un rapporto tra l'immaginazione cartografica e il potere statuale, che porta a ridefinire il ruolo degli stati nel contesto mutato della globalizzazione e dei problemi ad essa connessi.
Per attenersi alla "immaginazione cartografica" possiamo affermare con Farinelli che "la strategia occidentale vincente è sempre stata quella di fare a pezzi la sfera e trasformarla in una serie infinita di mappe, e fare i conti con una mappa alla volta. Questo è il processo che porta alla concezione dello Stato, che è la copia della mappa". I tempi però prospettano altre urgenze e cartografie, a "considerare la Terra per ciò che abbiamo sempre saputo che essa era, ma mai abbiamo avuto il coraggio di affrontare, cioè come una sfera. Sfera e tavola sono irriducibili al punto di vista matematico, topologico".
Per avvicinarci sempre di più alla installazione "Metrografie" con quanto stiamo dicendo può essere di aiuto l'immagine del labirinto quale possibile conformazione assumibile dalla stessa.
La forma del labirinto si ottiene con lo schiacciamento su una superficie delle strutture verticali, che rappresentano i vari livelli del potere. In questo senso il labirinto può essere pensato come la trasformazione del mondo in Terra, in cui i diversi piani (livelli di potere) si mutano in dimensioni orizzontali ricorsivamente disposte l'una dentro l'altra, e tale ricorsività implica che non si possa parlare di spazio con un centro. In questo senso anche la superficie del globo è un labirinto, poiché, a seconda di come si giri la sfera, tutti i suoi punti possono essere il centro.
Così il reticolato dell'installazione abbozza un labirinto (di per sé un labirinto è irrappresentabile), che converge verso un grande forma sferica, a indicare (chissà forse ai grandi della terra) che oggi guardando alla sfera, bisognerebbe cambiare prospettiva su un mondo da vedere come sfera-globo, come rete e non più come territorio cartografato, in un'ottica di collaborazione paritaria di fronte ai grandi e gravi problemi globali.
Un'importanza particolare assume per quanto mi riguarda l'altra installazione "Love is in the aire" di Osa/Volume zero per vari motivi.
Con Osa e Volume Zero vi è una lunga collaborazione con Il Città delle 100 Scale Festival, di cui sono uno dei direttori artisti, e l'istallazione a Palazzo Malvinni Malvezzi è la continuazione di un discorso iniziato l'anno passato con l'istallazione "Meno+" realizzata in occasione della tredicesima edizione del festival, presso il capannone dell'ex fabbrica di profilati di alluminio "Metaltecno" di Tito Scalo (PZ). Per una mia considerazione su di essa si può leggere la mia nota nel catalogo della mostra.
L'interesse sostanziale verso questa installazione deriva dal concept che la sostiene e dalle implicazioni performative. Essa occupa due spazi adiacenti del palazzo e ha come tema portante l'aria come indicato dal titolo. Nel primo ambiente si crea con dei ventilatori vortici d'aria, nel secondo, invece vi è un piccolo giardino costituite da piante che diffondono odori, pollini e semi, in più su schermi vengono proiettati testi e immagini sull'aria.
Se dovessi trovare una formula per definirla nella sua portata concettuale parlerei di una installazione percettivo-filosofico, perché implica una riflessione di carattere concettuale, attraverso un'immediata esperienza senso-percettiva. Il tentativo è di creare un immediato rapporto tra spirito e materia, essere e pensiero, soggetto - oggetto. Infatti l'idea di fondo è nel concepire una visione del rapporto uomo natura radicalmente immanente, rompendo con la falsa idea antropocentrica che l'uomo è signore della natura così da considerarla come oggetto per i propri scopi e fini. Il rapporto viene completamente ribaltato tanto da non potere esistere una gerarchia fra i vari elementi e l'uomo, che è solo una parte di un tutto.
Tale gioco "filosofico" ha come protagonista principale l'aria, che assume quasi una valenza pneumatica di matrice stoica. Secondo questi antichi filosofi greci, l'anima è uno pneûma, cosí come lo è anche la natura organica. Esso possiede una forza coesiva, alcuni, come Crisppo, elaborano una teoria della mescolanza con la quale ipotizza che la natura nel suo complesso sia unita allo pneûma da cui è permeata e mediante il quale il mondo viene tenuto insieme e reso compatto e concatenato.
Nell'esperienza che fa il visitatore percepisce con il corpo il movimento dell'aria, che pur se non visibile permea di sé e dà vita a tutto l'ambiente, sentendosene immerso. Non solo essa non si può caratterizzare come unica sostanza ma si compone di vari elementi e trasporta e mescola altri elementi in una danza vitale. Si induce a pensare che la natura sia continua trasformazione e dinamico mescolamento.
Il filosofo Emanuele Coccia elabora tutti questi temi e in un suo suo libro La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (il Mulino). Sottolinea pensando al mondo vegetale (l'altro aspetto della installazione) come senza le piante non ci sarebbe vita aerobica sulla terra, giacché è grazie alla fotosintesi – il metabolismo delle piante – che si è sviluppato l'ossigeno sul nostro pianeta. Perciò, se l'intera umanità scomparisse di colpo, le piante continuerebbero a vivere senza problemi; nel caso contrario, invece, tutti gli animali terrestri, noi compresi, sparirebbero
Il modo migliore di raffigurare il nostro rapporto con l'Universo è, per Coccia, quello dell'immersione: non ci dovremmo rapportare al mondo «come un soggetto si rapporta a un oggetto, ma come una medusa vive nel, con e attraverso il mare che le permette di essere ciò che è». I cosmologi la pensano allo stesso modo; siamo immersi nell'Universo come pesci nel mare, e siamo fatti della sua stessa materia. La natura intrinseca del reale è fluida: si compone di «flussi che ci penetrano e che noi penetriamo, di onde a intensità variabile e in perpetuo movimento».
Certo si può essere d'accordo o no su tale filosofia (e per quanto mi riguarda dei dubbi persistono) ma certo che ci troviamo, di fronte a gravi dilemmi che i grandi della terra dovrebbero porsi nello sforzo di concepire una politica comune per risolverli.
Non si può nascondere che i problemi che riguardano l'atmosfera terrestre sono decisivi e di primaria importanza per la nostra sopravvivenza, il nostro abitare il mondo.
Per tutte le informazioni sulla mostra, i suoi protagonisti e i luoghi rinvio al bel e nutrito catalogo a cura di Donato Faruolo, di cui bisogna sottolineare la finezza culturale e il coraggio dimostrato in più di un'occasione nel cercare di costruire percorsi espositivi estremamente interessanti per i problemi che innesca nel mondo dell'arte mettendo in discussioni ambizioni e tic autocelebrativi e autoreferenziali. Lo sforzo è proteso essenzialmente a pensare all'arte come luogo esteso comunitario, inclusivo e dialogico.
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