martedì 19 aprile 2022

Crisi e apocalissi. Brevi annotazioni su Ernesto De Martino


Spunti di riflessione per i nostri giorni

Penso che la lettura di alcuni classici di Ernesto De Martino possa essere utile per riflettere sui tempi che viviamo, tra pandemia e guerra, grazie anche alle nuove edizioni di alcune sue opere fondamentali. Soprattutto per la nuova edizione de "La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali" (Einaudi 2019) a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre, Marcello Massenzio, sicuramente tra i massimi studiosi del pensiero e l'opera di de Martino. Una nuova edizione del materiale inedito dello studioso, rivisitato e
riorganizzato
rispetto all'edizione del 1977 curata da Chiara Gallino.

Un'attenzione sul pensiero di
De Martino, che lo colloca entro il dibattito della cultura europea e non solo come studioso del meridione d'Italia. Se ne cercano le continuità e le discontinuità rispetto al corso del suo pensiero e lavoro etnografico. Un'edizione "definitiva della summa del vario e articolato pensiero di De Martino sulla filosofia della storia, sulle espressioni culturali della
vita religiosa, sul ruolo e la funzione delle discipline psichiatriche ed etno-antropologiche". Il volume, come sottolinea Massenzio, cerca di allargare l'orizzonte culturale e filosofico di uno dei maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea del novecento. Una nuova esplorazione per porre maggiore attenzione, ad un pensiero che ci permette di meglio comprendere un mondo che manifesta e tensioni nuove e potenzialità inedite e per alcuni versi indecifrabili.

Gli studi sulle apocalissi hanno riguardato l'ultima parte della sua vita stroncata da una prematura morte, essi sono però un ulteriore sviluppo del percorso demartiniano, della sua ricerca teorica ed etnografica entro cui saggiare ed ampliare quanto messo appunto rispetto ad alcuni concetto chiave della sua antropologia. 

 
I termini che De Martini elabora sono veri e propri costrutti linguistico-concettuali dal significato complesso, che svolgono una funzione interpretativa per cogliere alcuni fenomeni che si collocano nella più profonda dimensione umana, che segnano l'antropogenesi, il costituirsi dell'essere uomo e della sua umanità, che si caratterizza come cultura e produzione culturale. 

Tali termini trovano radice in varie dimensioni culturali e disciplinari. Hanno sicuramente una matrice filosofica, nello storicismo crociano e nel marxismo gramsciano ma manifestano grande attenzione e acume nei confronti della grande cultura europea, in particolare verso le correnti fenomenologiche ed esistenzialistiche, che avevano trovato in Italia una elaborazione originale in filosofi come Enzo Paci e Nicola Abbagnano. La peculiarità dell'elaborazione demartiniana troverà comunque ulteriore linfa vitale nella pratica della ricerca attiva, per costituire un lessico fondamentale della ricerca antropologica.

De Martino formula alcuni concetti fondamentali in merito alla crisi esistenziale, che si sviluppa nella tensione tra due poli, la "presenza" e "l'etica del trascendimento".

Due poli che entrano in scena  nell'attuarsi del dramma della crisi, che si svolge
tra il rischio della "perdita della presenza" e del mondo e della possibilità di reintegrazione del soggetto in crisi dentro la comunità e la storia.

"Presenza", "Crisi della Presenza", "
Etica del trascendimento", sono i termini che hanno lo scopo di rivelare e manifestare la dimensione esistenziale, del modo di stare al mondo e nel mondo degli esseri umani la cui esistenza è soggetta alla precarietà o alla fine (morte) entro una dimensione culturale. Ed è proprio la dimensione culturale che permette, attraverso i suoi prodotti di sottrarre la presenza alla catastrofe individuale o comunitaria per potere operare nel mondo, secondo valore,  - come dice De Martino - nel senso non solo di cogliere il mondo dei significati e dei simboli di una cultura ma esprimere capacità di produrre economia, senso, valori.

Sicuramente il termine "presenza" viene colto da De Demartino dal linguaggio filosofico esistenzialista. É la "sua" trasposizione dell'esser-ci heideggeriano. Nel riferirsi ad Heidegger, De Martino ne marca anche le distanze, nel precisare il significato nel rapporto che si stabilisce tra l'essere e l'esser-ci. Per Heidegger significa, cogliere l'interrogazione sull'essere posto dall'esserc-ci, che riguarda il senso e il modo di stare al mondo da parte dell'ente che può porre l'interrogazione. Gli esseri umani sono gli unici esseri che hanno consapevolezza di essere al mondo. L'essere al mondo dell'esser-ci è caratterizzato dalla sua temporalità (essere per la morte), e anche dalla possibilità - capacità di essere nel progetto, di realizzarsi nell'autenticità o inautenticità.

De Martino, se pur fa riferimento alla terminologia heideggeriana, ne segna anche le differenze in riferimento ad aspetti importanti quali la temporalità, e le modalità di essere situati nel mondo.

Amalia Signorelli riporta significativamente un appunto di commento di De Martino ad un passo di Heidegger, in cui chiarisce quale significato assume per lui il concetto di "presenza", dove sono ben presenti (e virgolettati) i richiami ad altri percorsi filosofici, con particolare riferimento agli aspetti di derivazione storicistica. Scrive De Martino:

 

"La presenza […]va intesa nel senso del Dasein come 'presentificazione emergente', 'energia oltrepassante la situazione', 'intenzionalità in atto', 'esserci-nel-mondo', 'operatività secondo forme di colorazione culturale', apertura all'Inter soggettivo e al relazionale, movimento per entro un orizzonte di origine e destino, partecipazione progettante alla società in sviluppo e alla storia in cammino di un'epoca" [1]

Come fa notare la Signorelli questa definizione di presenza accosta le definizioni tratte dall'esistenzialismo (quelle fra apici) ad altri carichi di echi storicistici. La citazione sintetizza molti concetti di De Martino. Sempre la Signorelli specifica come per De Martini la "presenza" è il 'luogo' dove matura la coscienza storica e dove si costruisce il significato umano degli accadimenti, giacché il bene culturale coincide con l'accadimento dotato di significato umano, da cui il bene stesso si genera; è ancora, la presenza è la protagonista della decisione di andare oltre la datità della situazione secondo valori, è la protagonista dell'ethos del trascendimento"[2]

É importante qui sottolineare come Presenza ed Etica del trascendimento si sposini, nel senso che il secondo termine è consustanziale al primo.  Per De Martino si stabilisce un nesso inestricabile tra essere e dover essere come caratterizzazione dell'essere umano che opera per trascendere l'essere dato tramite il fare secondo orizzonti di valori che man mano vengono tracciati. Un trapassare dall'ordine naturale a quello dell'umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva dell'esistenza.

Per De Martino il mondo concreto dell'uomo, è sempre un mondo storico, sta in una tradizione, sussiste in ogni tempo mediante la società è la comunità. Ma l'essere nel mondo dell'uomo si manifesta coma anche capacità di trasformazione della realtà. Attività contro passività.

 Ne "Il mondo Magico", specchio delle civiltà "primitive" viene rappresentato il "dramma storico", che riguarda la presenza umana, l'essere nel mondo, che consiste nell'opporsi del soggetto al mondo esterno per forgiarlo, grazie all'essere situato entro un ordine culturale. La perdita di questo, il rompersi di tale ordine apre alla crisi. Essa avviene quando la presenza viene risucchiata nel caos del mondo esterno o quando l'esterno la invade assoggettandola. La magia si caratterizza come l'insieme delle istituzioni e dei dispositivi che servono a contrastare un esito negativo della crisi, a far sì che si conservi o si riacquisti il permanente equilibrio tra essere e non essere, a far sì che l'intero modo, presenza, cultura, storia non precipitano nel nulla. "Ed è in questo retroterra - sottolinea Massenzio - che affonda le radici il progetto di ricerca sulle apocalissi". Evidenziando in tal modo il file rouge di tutto suo percorso d'intellettuale e di ricercatore [3]
.
De Martino articola in modo ampio il concetto di "presenza" e "crisi della presenza" nel discusso testo "Il mondo Magico" del 1943, secondo una modalità di etnografo da tavolino, entro i parametri della comparazione e della ricerca di fenomeni comuni, in quello che veniva definito il mondo dell'alterità culturale. In fondo De martino, ritiene la presenza come universale antropologico, per cui anche il mondo magico, con i suoi drammi e le sue elaborazioni di ricomposizione della crisi, esprimono un mondo culturale che non può essere pensato né secondo il criterio evoluzionistico, come una sorta di infanzia dell'umanità, né messo ai margini del mondo dello spirito come per lo storicismo crociano. Il mondo magico, rappresenta una forma di civiltà in cui vengono elaborati e messo in opera apparati culturali e dispositivi pratici che fronteggiano la possibilità della crisi della presenza. Tali apparati culturali trovano il loro manifestarsi proprio nella magia, che ha sue particolarità modalità operative, che rientrano dentro la tradizione e modalità di essere di un mondo culturale, che in seguito De Martino cercherà di individuare e verificare nelle sue spedizioni che hanno riguardato il sud Italia, entro quegli spazi, ricchi d contraddizioni in cui rilevare ancora aspetti del "mondo magico" [4] , incastonati nelle contraddizioni della modernità.
Essa si manifesta con una forza drammatica maggiore in quelle culture, come quella magica dei contadini del Sud, in cui il piano esistenziale e condizionato da una situazione storica di arretratezza economica e sociale. La presenza nel mondo risulta di per sé più precaria e rispetto alle minacce naturali e alla drammaticità delle perdite familiari e comunitarie. Così come una siccità può condurre ad una grande carestia che mette a rischio la
sopravvivenza individuale o comunitaria, o la morte del marito può mettere a repentaglio la sopravvivenza di un'intera
famiglia. La magia, in quanto forma culturale, permette a queste popolazione di contrastare il rischio della fine senza però, e questo risulta un limite, la capacità di proiettarsi entro una dimensione futuribile. Come dice de Martino siamo di fronte ad una modalità di essere nella storia senza starci.

Nelle culture "altre", il dramma della crisi della presenza, così come viene descritto ne "Il mondo magico", era contenuto ed elaborato entro una dimensione destorificata. Il malessere viene ricondotto ad un'origine immemore e universale, attraverso racconti mitici e forme rituali, tramite i quali il esso è ricomposto, favorendo, in tal modo, la reintegrazione del soggetto in crisi nella vita comunitaria.

 
Nella modernità (che ha abbandonato il mondo magico) la presenza risulta più strutturata, conformando un individuo autonomo e cosciente della dimensione storica e della presenza in essa rispetto a un piano di valori condiviso e di una umanità che si proietta nel futuro, chiaramente questo non significa che i rischi non ci siano.
La storia è frutto di un continuo trascendersi secondo telos infinito per fare emergere quella umanità che è realizzazione di sé e autorealizzazione di sé.
Motore di tutto questo secondo de Martino è ciò che lui chiama l' "etica del trascendimento", che alla staticità dell'essere contrappone il dovere essere, che esprime la capacità di operare nel mondo. Questo significa che essendo noi nel nostro mondo culturale operiamo non solo alla sua conservazione ma anche alla sua trasformazione.

Parafrasando De Martino si può dire che l'Ethos del trascendimento è sempre un chiamare a combattere l'insidia estrema di perdersi o annullarsi: e ciò che chiamiamo cultura nella sua positività è appunto il vittorioso battersi dell'uomo per mantenere sempre aperta la possibilità di un mondo culturale possibile, l'esorcismo solenne che contro il rischio del «finire» fa ostinatamente valere la varia potenza dell'opera che vale e dei mores che essa genera e sostiene.

Tra gli anni cinquanta e sessanta del novecento il clima in cui De Martino ha vissuto era segnato dalla guerra fredda e si avvertiva e temeva una catastrofe nucleare, mentre si percepivano profondi cambiamenti sociali e culturali in Europa, Italia e nel mondo. De Martino, in questa fase riprende alcuni concetti fondamentali della sua antropologia e li misura non solo nel confronto di "culture altre" ma con il clima culturale e sociale dell'intero occidente.

Al suo lavoro di etnografo affianca una profonda indagine di carattere letteraria e filosofica, con particolare riferimento all'esistenzialismo e alla letteratura della "decadenza" nonché pone una particolare attenzione alla psichiatria di carattere fenomenologico. Egli scorge come la "gettatezza" dell'esser-ci (per usare un termine Heideggeriano), cioè la condizione esistenziale nel mondo occidentale dell'epoca fosse caratterizzata da un profondo senso di estraneità e spaesamento.

Nello stesso periodo si sofferma a studiare le forme di apocalissi così come sono espresse in alcune religioni (in particolare quella cristiana), nel marxismo e in alcune realtà coloniali all'epoca in fase di decolonizzazione. Introduce il concetto di mondo e di fine del mondo (con chiaro riferimento alla crisi della presenza) e attraverso l'idea di apocalisse tenta di capire quali fossero le forme di percezioni, narrazione e rimedi rispetto ad una fine del mondo in atto o imminente.

Di fronte a tale situazione esistenziale e culturale de Martini guarda al futuro della civiltà occidentale con una certa preoccupazione.

Lo studio delle apocalissi gli serve per mettere a fuoco le situazioni in cui si manifesta una perdita di mondo e quale gli esiti e le attese. Di fronte alla "catastrofe" (intesa come momento di profonda messa a rischio dell'ordine o dell'irrompere del caos), quale funzione assumono i racconti apocalittici sul piano individuale, collettivo o cosmico.

La fine del mondo, sintetizzando al massimo il pensiero di de Martino, nella narrazione e nei vissuti apocalittici può riguardare o la fine in senso assoluto del mondo o la fine di un mondo culturale. Ognuna di essa è segnata dal proprio escaton, della possibilità insomma del riscatto, se porta con sé l'impossibilità o la possibilità di una sua rigenerazione-trasformazione del mondo (dannazione o salvezza)

A De Martino sembrava (almeno così penso) che "la fine del mondo" in occidente (forse per la presenza dell'atomica) si manifestasse entro una situazione di crisi culturale tendente al nichilismo, preoccupazione che è stata sempre presente nella mente di De Martino, già da giovane studioso rispetto alle forme di irrazionalismo che avanzavano negli studi etnologici, che facevano eco con il pifferaio Hitler.  

 

L'ulteriore preoccupazione dello studioso andava verso una società in cui i legami sociali s'indebolivano e cresceva un marcato individualismo di stampo borghese, così come segnalato dal manifestarsi di forme di angoscia e crolli psicopatologici caratterizzanti contesti esistenziali "apocalittici" privi di possibilità di riscatto.

Di fronte ad una possibile "autodistruzione" dell'occidente, proprio per l'affievolirsi di quello che è lo spirito del trascendimento, De Martino manifesta tutta la sua inquietudine a cui cerca di reagire in termini culturali e politici, a partire, in particolare, dal suo modo di concepire l'antropologia e la figura dell'antropologo.

Risultano significativo a tale proposito il richiama a due aspetti del suo pensiero. Uno riguarda l'"etica del trascendimento" di cui abbiamo già accennato. L'altro riguarda gli aspetti "epistemologici" della disciplina e la figura dell'antropologo, che hanno occupato costantemente la riflessione e la ricerca di De Martino. Fecondo e per alcuni versi polemico risulta il dialogo con i maggiori pensatori europei ed italiani in riferimento alle questioni dell'avalutatività, al rapporto tra oggettività e soggettività nell'ambito delle scienze storiche sociali, su cui De Martino assume una posizione originale rispetto alle grandi correnti che informano il dibattito disciplinare ed epistemologico quali il positivismo, lo storicismo e le varie scuole etnografiche e antropologiche.

Per De Martino era necessario interrogarsi su quale funzione e a cosa fosse destinata l'antropologia culturale entro un'epoca di grandi cambiamenti e tensioni tra blocchi (militari, economici ed ideologici) mentre dall'altra parte crescevano le interrelazioni, che in particolare la tecnica accelerava verso la costruzione di un mondo più globale ed interdipendente e la decolonizzazione faceva emergere realtà ritenute fino a quel momento subordinate ed estranee, che incominciavano a manifestarsi sulla scena della storia come soggetti autonomi portatori di una propria cultura e modi di essere. Così come il manifestarsi di soggetti marginali che rivendicavano, contro l'alienazione, il proprio protagonismo nella storia all'insegna di un'emancipazione non omologante o subordinante.

In tale contesto la figura dell'antropologo, oltre la sfera disciplinare, diviene paradigmatica in quanto "instauratore" di relazioni con l'alterità. De Martino, in riferimento alla disciplina antropologica ha sempre ribadito, nel confronto epistemologico con i grandi etnologi italiani e internazionali, che l'antropologo deve essere soggetto ad un "doppio sguardo", o per dirla in altri termini, soggetto a una ripartizione dell'unico sguardo, che implica una duplice direzione verso l'esterno e verso l'interno.

Con riferimento a "Il mondo Magico", Marcello Massenzio fa notare come per De Martino

"in altre parole, se l'etnologia ha come segno distintivo il viaggio in direzione dell'altro da sé (viaggio della mente, prima e più che spostamento fisico), quest'ultimo possiede un senso culturalmente compiuto nella misura in cui media il ritorno al punto di partenza. Ritorno metaforico, da intendere come riappropriazione pienamente cosciente della civiltà di appartenenza – detta anche patria culturale –, le cui prerogative storicamente fondate e le cui potenzialità ancora in cerca di attuazione si rendono pienamente evidenti proprio in virtù del confronto con il culturalmente alieno. Si può arrivare a sostenere che per De Martino l'etnologia è la scienza delle civiltà extraoccidentali, che tende a promuovere una nuova consapevolezza critica dell'Occidente e della sua storia". [5]

Lo stesso Massenzio rileva come da questo punto di vista il pensiero di de Martini collimi con quello di Levis Strauss

"L'etnografo non può disinteressarsi della sua civiltà […], in quanto la sua stessa esistenza è comprensibile solo se considerata come un tentativo di riscatto: egli è simbolo dell'espiazione" (Tristi tropici, 1960, p. 377).

Sarà possibile, dal punto di vista dell'antropologo, affacciarsi su altre civiltà e modi di essere se sarà in grado di esercitare una sorta di epoché delle proprie categorie interpretative (relativizzarle dunque). Ciò non significa un abbandono o una rinuncia della propria "occidentalità". Anzi per potere operare tale sforz
o risulta necessario un processo di "rimemorazione" rielaborativa del suo formarsi e del suo sviluppo. Come dire, l'antropologo sarà in grado di comprendere l'altro, se riesce, in tale lavoro, a definire i "limiti" del patrimonio valoriale e culturale che ne impediscono o orientano la comprensione (o ad aprire lo spazio della comprensione).

Sempre all'interno di tale lavoro etnografico vi è la necessità di operare un confronto, mettere in atto una dialettica priva di pregiudizi onde poter cogliere le reciproche diversità, e potere contribuire a chiarire la dimensione culturale altrui e propria.

Il mettere tra parentesi se stessi per ritrovarsi, per De Martino non significa assolutamente una fuga nell'irrazionale, significa evitare il rischio di una deriva culturale, di prospettare una rigida identità apportatrice di divisioni, separazioni e conflitti.

L'occidente, per proiettare il discorso al contesto culturale generale, deve in questo confronto con l'alterità riconsiderare le sue luci e le sue ombre per dare attuazione a tutte le potenzialità che la modernità ha aperto in termini di autonomia, libertà, superamento delle subalternità culturali e sociali tenendo presente che l'orizzonte verso cui guardiamo si è popolato e si sta popolando di soggetti che manifestano non solo la propria esistenza ma anche il loro protagonismo.

De Martino parla della costruzione di un Umanesimo etnografico (integrale), che è la ripresa di un discorso della modernità che deve da una parte essere portato a compimento e dall'altro deve "arricchirsi" dell'incontro con l'alterità. Io direi di un umanesimo che nel riconsiderare la sua storia e formazione sappia coglierne i propri limiti, capace di una ragione meno univoca e più complessa, capace insomma di confrontarsi con la pluralità di corpi, culture e orizzonti geografici.

E forse mai come in questo momento, in cui aleggia un clima di crisi e angosce apocalittiche, tale sforzo debba essere quanto mai fatto.

Affinché, di fronte alla recrudescenza della storia dopo che era stata dichiarata defunta, non si ceda all'irrazionalità, bisogna puntare alla costruzione di un nuovo ordine governato da una ragione plurale.

E, al là dello stesso De Martino, riconsiderare il rapporto con la natura oltre l'attuale antropocentrismo, figlio anch'esso di un certo umanesimo che ha caratterizzato la modernità.

 




[1]
E. De Martino,Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, il Mulino, Bologna, 2005, p. 94

[2]
Amalia Signorelli,Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L'asino d'oro edizioni, Roma, 2015, p. 66.

[3]
Marcello Massenziointroduzione, Ernesto De Martino, La fine del Mondo, Einaudi 2019, p.34

[4]
A tale proposito si guarda ancora il testo di Signorelli citato.

Su come si sviluppa il pensiero di De Martino su questi aspetti importanti dopo le "severe" critiche crociane e la discussione con intellettuali quali l'Abbagnano e il Cases, sul suo testo "Il mondo Magico", ed altri si guardi le intense pagine di carattere "filosofiche" contenute in "Morte e pianto rituale" del 1958 (si veda l'edizione del 2021 a cura di Marcello Massenzio edito Einaudi), dove questi concetti sono ripresi proprio a partire da un brano dei Frammenti di etica (1922) di Croce "un assiduo commentario – scrive De Martino – che ovviamente è da intendersi nel senso più attivo e di molto oltrepassa il testo commentato". In questo "che di molto oltrepassa" si capisce come il discepolo guardi ancora con interesse al maestro ma che ormai pieno di una sua consapevolezza teorica se ne distacca nell'elaborare la trama concettuale della sua antropologia.

[5]
Vedi voce "Ernesto De Martino" in Enciclopedia Treccani a cura di Marcello Massenzio.


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