venerdì 29 aprile 2022

Reazione e rivoluzione


Un mio amico, Ermenegildo Caccese, mi invia un suo appunto di riflessione intorno a rivoluzione e restaurazione chiedendo un mio commento. 

Preso da "furia" filosofica, di getto scrivo un testo farneticante. Nonostante tutto ho deciso di inviarglielo scusandomi per la mia impudicizia. 


Testo ricevuto

Caro Francesco, per un inizio dialettico, ti mando una meditazione - approssimativa e ovviamente incompleta. La trovi anche sulla mia pagina FB. Fammi sapere. Un forte abbraccio. Ermenegildo.

1.IV.2022 – Robespierre e de Maistre. Meditazione su reazione e rivoluzione

Reazione e rivoluzione hanno i loro contesti di razionalità e di impegno politico. Non si possono confrontare epoche ed esperienze se non si considera che il minimo denominatore umano è troppo in profondità per determinare una forma assoluta di giustizia. Mi sono convinto, col tempo, e dopo aver creduto troppo, che la lettura più attendibile del problema politico è forse quella del legno storto dell'umanità... Il legno, è vero, non si può raddrizzare, e non è allo stesso modo vero che l'essere storto è la perfezione, perché con chiari argomenti ed evidenti esperienze sappiamo che non è auspicabile, almeno per una parte dell'umanità, rimanere storti. La forza dell'umano, quella autenticamente costruttiva, nasce secondo me da questa constatazione di fondo: occorre trovare l'equilibrio che definisce la nostra forma. Un equilibrio che necessita di sorveglianza e comprensione, e che oggi torna di nuovo ad allontanarsi dalla visuale...

La mia risposta 

Caro Ermenelgido
al tuo frammento mi viene così, quasi d'istinto, da farneticare:

Nel tuo breve frammento si addensano varie cose che hanno a che fare con gli interrogativi più profondi di cosa sia l'essere umano e cosa sia una civiltà in cui tale essere umano si pone. 

Lo sfondo resta la dimensione temporale, la storia cioè e il suo procedere e la relazione tra essa e gli uomini nel loro inestricabile intreccio. 


Ora il "legno storto", ripreso anche da Kant, fa riferimento all'idea del male, come radice fondamentale dell'uomo, che richiama il senso biblico (più calvinista) del peccato originale e della rispettiva "impossibile"grazia. 

Di fronte a tale sostanza antropologica e metafisica l'uomo può solo tendere ad uno sforzo infinito per tenere a bada la "bestia" che ha in sé. E qui bisogna invocare i criteri della ragione (di cui l'essere umano è dotato) e procedere perché il legno storto possa pian pianino raddrizzarsi in un processo all'infinito. 

Compito questo dei singoli uomini tramite la propria coscienza o dell'intera umanità secondo piani etici e politici universali della società e dello stato. Se così è allora il pessimismo della ragione ti deve sempre accompagnare sapendo che il regresso e l'irrazionalità possono ritornare anche violentemente in uno scontro infinito. 

Si tratta di vedere se procediamo nell'ottica di Sisifo o di Prometeo. 


D'altronde, e qui si presenta Rousseau, che al peccato antepone il paradiso della natura originaria. Rousseau, in fondo, vede nel tempo un disgregarsi della pienezza originaria e se pur ipoteticamente cerca i momenti di rottura che portano alla corruzione dell'umanità, impiantando il processo dentro la stessa umanità, nel dispiegarsi della sopraffazione conseguente all'appropriazione della risorsa comune. La società, e qui si fa avanti l'idea di decadenza, porta in sé i germi del disfacimento dell'umanità. 

E se la natura originaria finisce se ne può ossimoricamente determinarne un'altra artificiale che necessità di azione e volontà per essere portata a termine. Ecco il punto in cui il tempo può essere "cambiato" (rotto) e modificato per invertirne il decorso portandolo però in un altra dimensione. C'erto le contraddizioni emergono ed è difficile stabilire un equo rapporto tra contingenza e necessità. Perché a ben badare se la corruzione e una possibilità, difficile risulta la certezza della sua impossibilità. Ciò implica anche qui, se pure nella volontà, un processo che non può risolversi in una meta definita senza il rischio del disfacimento. Se non si vuole ricadere in un cieco assoluto. 


Hegel ha tentato di costruire un edificio imponente, entro cui il motore è la contraddizione, la perenne tragica contrapposizione degli opposti, che in un processo infinito tendono ad una ricomposizione. Il grande sforzo (lo streben di matrice fichtiana) dell'umanità che procede a realizzare la sua essenza come pienezza dell'essere umano entro il suo mondo. 

Si tratta dunque di realizzare un mondo in cui conciliare il particolare con l'universale, facendo leva su ciò che non solo caratterizza l'essere umano, la ragione, ma far si che essa sia (con le sue contraddizioni), si manifesti, nella stessa articolazione della realtà, di cui ne è l'incarnazione. 


Nietzsche procede nella duplice prospettiva della Decadance e del Nichilismo questo come risvolto della l'altra. 

All'impianto (per prendere un termine heideggeriano) della ragione dominante (o forza della ragione dominante). Da Socrate alla modernità essa ha caratterizzato tutte le impalcature di dominio che hanno limitato la vita tramite le illusioni (Schopenhauer) sino al punto di rottura, alla morte di Dio e dei suoi idoli, tempo in cui vagano gli ultimi uomini. E qui che il tempo si frantuma nella sua illusoria marcia trionfante ritornando a danzare come il cerchio primogenito. L'oltre non si può manifestare quale aufhebung, ma Über, che attua la mutazione (salto quantico) e irreversibile. Da un lato dunque la demistificazione e lo svelamento delle forze di dominio, dall'altro l'autocreazione di un uomo in cui il passato non sia una catena per compiere il necessario salto nella gioia, trasmutazione dei valori. 


C'è qualcosa in tutte queste considerazioni che ha troppo di tragico e troppo di gioioso. Un eroismo pericoloso. 


Tutto questo mi induce a introdurre un altro punto di vista che esula da una certa eroicità, che sappia tenere in considerazione tutte le contraddizioni con cui abbiamo a che fare. 

È il punto di vista della fragilità. 

Ecco per restare in questo ambito filosofico e antropologico uso il termine "fragilità" privo per il momento di connotazioni morali. Se mai quale condizione esistenziale che ha che fare con tutti gli esseri e in primis con gli esseri umani, questo strano intreccio di consapevolezza e inconsapevolezza. 

Mi chiedo se intorno a questa presa in incarico di tale condizione non si possa aprire una possibilità di mutua reciprocità tra umani e tra umani e non umani. 

Se non sia possibile ricomprendere entro quest'ottica, criticamente, quanto detto precedentemente. Sapendo che la ragione con cui avremo a che fare si articolerà in forma plurale. Allora non si tratta della grande rivoluzione, che si impadronisce del tempo. Si tratterà di un tempo a dimensioni diverse che ha bisogno di trovare i punti di interconnessione, di sincronizzare il procedere, di "densificare" nuclei portanti, di stabilire priorità a partire dalla fragilità più a rischio. 

Ora è evidente che i campi dell'etica e della politica hanno bisogno di riconformarsi sulla scorta di questo. Sapendo gestalticanente che ogni riconfigurazione è rottura "rivoluzionaria". 






 

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