Ho sempre pensato al ciclismo come uno sport tra i più faticosi. Così me lo immaginavo nella mia infanzia mentre calcolavo le centinaia di chilometri che i ciclisti dovevano macinare tappa dopo tappa durante il Giro d'Italia. Sarà per questo, che, per la mia pigra indole, non l'ho mai praticato. Però non ho mai smesso di ammirare e apprezzare lo sforzo del ciclista, emblema per quanto mi riguarda delle mie mete impossibili.
Quelli della mia generazione, sono particolarmente legati al giro d'Italia, non solo per l'importanza dello sport ma per i ricordi epici che richiama, a chi ha vissuto le grandi trasformazioni di questo paese che da agricolo diventava industriale. Sopratutto dal profondo Sud, dove noi ragazzetti dai pantaloncini corti e dai sandali di legno passavano le assolate estate sfrenandoci in estenuanti giochi di resistenza e forza fisica. Non c'erano giochi o giocattoli preconfezionati. La bici, meglio la bicicletta, era sogno e fonte di benevole invidia per i pochi che la possedevano. Verso di loro si esercitava qualsiasi forma di adulazione pur di fare un giro sulla bici. Così come non sarebbero mancati i rimproveri della mamma, sviando al volo un ceffone, per qualche sbucciatura alle ginocchia o ai gomiti, causate da eroiche cadute rocambolesche.
Gli amici amati e invidiati possessori di bici erano i figli dei benestanti del paese oppure di qualche emigrante tornato con la nuova utilitaria, spesso una seicento FIAT, con su un portabagaglio a mo di albero della cuccagna.
Un'Italia piena di contraddizioni, segnata da un netto confine geografico che divideva il Nord dal Sud, con un balzo di civiltà e cultura che il consumismo dilagante, il cinema e la televisione, sempre più invadente, dei Giacagió, dei cartoni animati, dei telefilm e degli sceneggiati avrebbe cercato di accorciare creando una nuova lingua e un immaginario misto di America, gerghi dialettali, spezzoni di grande letteratura, di slogan e jingle pubblicitari. Un mondo che cercava affannosamente una illusoria pace tra blocchi armati, conflitti ideologici, guerre lontane. Eventi per noi ragazzini incomprensibili, presi come eravamo dalle calure estive, lo sfrigolio dei sensi negli interminabili pomeriggi spesi, seminudi, ai bordi dei torrenti. Scherzavamo tra il faceto e il volgare per schiattare di risate o toccarsi impudicamente in gare maliziose.
In questi frangenti temporali, sospesi tra l'infanzia e la perdita dell'innocenza, s'insinuava il giro d'Italia con la sua mitologia e la retorica delle grandi imprese dei campioni.
Felice Gimondi, è uno dei primi nomi che mi viene in mente. Un mito dello sport italiano e mondiale ma lo è soprattutto per chi, come me, ha vissuto il transito di un'Italia alla ricerca del benessere e della spensieratezza, che esplodeva proprio tra la primavera e l'estate.
A chi come me, ragazzino, aveva nelle orecchie i nomi di Coppi e Bartali, Gimondi è stato una tra i primi miti sportivi e televisivi (come Benvenuti) che destava ammirazione con il suo sguardo basso e le risposte faticose e sincopate ai microfoni televisivi di Adriano De Zan, dopo le tappe del giro con addosso ancora il sudore e il respiro affannoso.
Per un Italia che consumava il boom economico, scompigliata dai flussi migratori, il tentativo di "unificazione" passava con le autostrade, la televisione, le canzoni e lo sport, il calcio e il ciclismo, che, in modo particolare, era la concreta scoperta dei territori, delle condizioni sociali e umane che si spalmavano tra il nord e il sud. Era il momento in cui si realizzava una specie di identità patriottica. Di "giri" ce n'erano di varie specie. L'altro era il Cantagiro, il giro d'italia dei cantanti, che insieme a San Remo ha dato il via al boom dei 45 giri e dei mangia dischi, soppiantati dal mitico mangianastri che trasformerà la cinquecento in una disco-mobile, una volta che raggiunta l'età della patente si abbandonava la vespa e il ciao.
Che gioia per noi ragazzini quella volta che con il parroco, siamo andati a vedere passare il giro, al passo del Granito, verso Castelgrande, sulla via Appia che s'inerpica come un serpente sulle montagne dove adesso c'è un bell'osservatorio astronomico.
Che meraviglia vedere la formazione a triangolo delle vespe della Piaggio fare da battipista al giro tra le urla di noi ragazzini, che ripetevamo, senza capirne il significati, "chi mangia la mela?". Tutti li con gli occhi sgranati e gli indici puntati a riconoscere i vari campioni dalle loro maglie. Confesso che i miei occhi non erano così lesti e pronti. Aspettavo con ansia il passaggio, di Felice Gimondi e di Eddie Merckx. Era una giornata molto assolata. Appena comparve Merckx tutti si agitarono e io che ero tra i più piccoli fui tagliato un po' fuori con lo sguardo. Intravvidi una sagoma arrotolata su se stessa e chissà perché, forse, per un contrasto d'ombre, il suo volto mi apparve nero. E così restò nella mia immaginazione da confonderlo con un uomo di colore. Mi commosse molto vederlo per televisione, qualche anno dopo, piangere come un bambino, espulso dal giro perché accusato di doping. Fu una grande carognata per liberarsi del "Cannibale", così come veniva chiamato per la sua determinazione e forza atletica.
Proprio quel giorno, al giro, con gli animali al pascolo nelle vallate o tra pendii collinari, abbiamo visto, in diretta, una vacca figliare e leccare accuratamente il vitellino per liberarlo dai residui della placenta. E subito dopo, con tenerezza, fargli ombra con il suo corpo per proteggerlo dal sole infuocato.
Felice Gimondi aveva il volto duro e ferrigno di un uomo buono.
Era l'epoca in cui le lucciole stavano scomparendo. Tutto sarebbe cambiato vorticosamente e il giro uscì fuori dalla mia vita per rincontrarlo in modo distratto quando fece tappa a Potenza nel 2001, dove per un attimo vidi passare un pirata così vicino che avrei potuto toccarlo.
Peccato un'occasione mancata.
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