Illusioni e ambiguità sull'arte teatrale e impegno sociale.
Il film "Grazie Ragazzi" con protagonista Antonio Albanese e la regia di Riccardo Milano sta avendo un buon successo dovuto alla bravura dei protagonisti e alla vicenda narrata entro un carcere.
Al protagonista, Antonio, un attore teatrale fallito che sopravvive doppiando film porno, un giorno, il suo ex compagno di scena gli offre un'opportunità di lavoro. Si tratta di creare un laboratorio teatrale nella Casa Circondariale di Velletri, che Antonio accetta.
Il film sta suscitato curiosità ed interesse in riferimento al tema trattato, il "teatro" in carcere. Ho visto in giro entusiastiche considerazioni, con pubblici amministratori e funzionari che parlano di teatro e cultura come possibilità di risoluzione di problemi sociali e comunitari, riferendosi genericamente al teatro sociale.
In occasione del Leone d'Oro Biennale teatro 2023 alla carriera ad Armando Punzo, antesignano e maestro del teatro in carcere nella Fortezza medicea di Volterra, proprio attraverso la sua esperienza, mi permetto di fare alcune annotazioni critiche che possono insorgere nell'attribuire facili etichettature al teatro. Infatti invece di pensare al teatro si finisce per pensare ad altro, adeguandosi, con qualche opportunismo, ad un diffuso conformismo culturale e burocratico.
Rossella Menna, studiosa e critica teatrale, che segue con molta attenzione le vicende della Compagnia della Fortezza e del teatro di Punzo, con cui ha scritto il libro "Un'idea più grande di me. Conversazioni" (Luca Sossella Editore, 2019) tra il biografico e il critico, ha ben sintetizzato la quesitone in un intervento dal titolo "Contro il teatro sociale", su Mimesisjoumal (febbraio 2022 v. Link sotto) da cui raccolgo alcune considerazioni.
Il riferimento di partenza è la distinzione che Giacchetti, già dagli anni 90 poneva tra senso e funzione. Considerando la prima come l'aspetto fondamentale del fare teatro e la seconda come uso "strumentale" se pure sociale del teatro.
È chiaro che la distinzione va precisata, cercando di capirne gli intrecci senza confusioni e facili illusioni.
E forse per capire questo bisogna partire dal senso e dall'esperienza di Punzo, che ha fatto del "carcere" il luogo di una esperienza "teatrale". Punzo ha sempre affermato che la scelta fatta di "entrare" in un carcere non è nata da un intento "di elevazione umane e sociale" dei detenuti ma dalla messa in discussione di alcune modalità di pensare il teatro e dal tentativo/necessità di trovare nuove potenzialità e modalità di fare il tetro, proprio a partire dalla lezione destrutturante e innovativa di alcuni maestri del novecento che avevano condotto il teatro al di là dei luoghi, delle forme e dei modi tradizionali e canonici.
L'intento nasceva dalla necessità di fare teatro, creare teatro, "rigenerare" il teatro ampliando le modalità espressive e rinnovandone il senso a partire da una urgenza personale. Non a caso oltre l'intento sperimentale iniziale, in seguito, si è coltivato l'esigenza di costruire una vera e propria compagnia teatrale e rendere i "carcerati" attori, anche da formare, per poter essere autenticamente protagonisti della scena, fino alla creazione di un teatro in carcere.
Insomma il paradigma è invertito rispetto all'idea che l'uomo di teatro entra nel carcere per dare "conforto" e possibilità ai detenuti, ma è il carcere che dà nuovo senso al teatro.
Mi sembra, dunque, che il punto focale sia il tetro. Ora per quanto riguarda la funzione, da questa prospettive è evidente che delle conseguenze possano esserci, e che questo lavoro può avere, necessariamente, delle ricadute per la vita dei detenuti e e la struttura carceraria.
Certo c'è discussione ampia Essa è anche sintomo di smarrimento e fraintendimento. "Il sociale" sembra prendere il sopravvento e la diffusione di esperienze nelle carceri, o con altri contesti di emarginazioni sociali, si sono diffuse valorizzando aspetti educativi ed esperenziali. Infatti si sono sviluppati molti aspetti riguardanti l'animazione o ciò che viene chiamato il tetro sociale, che punta più a "ricomporre" o costruire relazioni, benessere, espressività, attivismo civico, sensibilità ecologica, per cui il passaggio attraverso il tetro è strumentale per raggiungere obbiettivi educativi, politici e sociali.
Niente di male in tutto questo. In senso più generale, non solo specificatamente in ambito teatrale, si parla di “artivismo”, come una nuova forma di arte politica, una tendenza "rigenerativa" di riconquista di un senso delle varie espressioni artistiche nei confronti di una realtà da cui fare emergere contraddizioni e nuove modalità di ricomposizione. Si veda a tale proposito Vincenzo Trione "Artivismo. Arte, politica, impegno"(Einaudi 2022).
È anche evidente che le ambiguità possono essere molte, così come le scorciatoie per facili consensi o addirittura per agevolazioni per entrare in circuiti di finanziamenti, cosa che evidenzia la poca attenzione della pubblica amministrazione nei confronti della cultura in generale. Ma il rischio più grosso é che si possa depotenziare la dimensione artistica a favore di "trattamenti riabilitativi", che vengono sovrapposti o sostituiti alla ricerca teatrale. Il portare o trasportare attività in carceri o in altre strutture sociali può correre il grande rischio di mettere in secondo piano il lavoro progettuale e artistico.
Spero che nelle motivazioni del premio alla carriera a Punzo non emergano delle ambiguità, sia riconosciuto il valore, inventivo e la pratica artistica di un uomo di teatro che ha contribuito ad arricchire la scena culturale e artistica del teatro tout court.
Per concludere riporto alcune annotazioni di Rossella Menna nell'articolo citato, che chiariscono bene dove voglio andare a parare:
"In questo quadro, di quella straordinaria potenzialità del teatro di forzare il reale da cui tutto è partito cosa resta? Nell'arte l'eccezione è un valore. Compito delle buone istituzioni è di far funzionare al meglio la convivenza civile, tramite compromessi e livellamenti. Compito degli artisti e di chi si occupa di arte è di fare uno scatto in avanti, aprire piste, scoprire territori inesplorati e conquistare elisir da portare in dote alla propria comunità di ritorno dal viaggio. Sono due vocazioni diverse, quando si confondono c'è sempre da preoccuparsi."
Rossella Menna
https://journals.openedition.org/mimesis/2592
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