venerdì 3 marzo 2023

“L’opera d’arte è elemento vivo nella società”


Donato Faruolo è stato intervistato sul numero 108 della rivista potentina Gocce d'autore sul tema dell'arte e della propaganda. Per la rubrica "osservare" la direttrice Eva Bonitatibus  lo interpella sul ruolo delle immagini nell'arte e nella comunicazione persuasiva, commerciale e politica. Lìintervista a questo link
 
L'intervista mi ha sollecitato delle annotazioni, riportate qui di seguito, con la speranza di ricevere ulteriori sollecitazioni.

L'excursus dell'intervista è ampio e tocca vari punti di grande interesse:
Arte e propaganda
Arte e società
Arte e comunicazione
Arte è ….
L'ultima affermazione sospesa indica quanto sia problematica una risposta, forse incoglibile, alla domanda cosa sia l'arte, che si presume avere un suo statuto così come consegnati da un retaggio, ahimè, troppo idealista o romantico ancora presente, ridotto chiaramente ai minimi termini.
Bisogna premettere che l'arte, avendo giocato molto durante il novecento sui suoi "statuti" e con le sue definizioni, privilegiando molto l'aspetto "critico" su se stessa, complica un po' le cose.

Rispetto all'intervista mi soffermo solo s alcuni punti.
Il primo riguarda il rapporto arte - comunicazione.
Mario Perniola, che ha indagato le nuove forme del sentire che hanno modificato e cambiato la nostra percezione ed esperienza estetica, ha tentato di tracciare i "confini", labili ma possibili, tra estetica e comunicazione, sottoponendo a critiche le istituzioni preposte a determinare processi impropri e tendenziosi, di valorizzazione artistica.
In un suo testo parla dell'ombra dell'arte (in L'arte e la sua ombra, Einaudi 2000) per rivendicare uno spazio di possibilità perché l'arte si mostrasse ancora capace di "sfuggire a se stessa" e di non esaurirsi nell'effetto immediato della comunicazione.
In questo testo difende il carattere complesso ed enigmatico dell'esperienza artistica. Contro la tendenza dominante che spinge a concepire l'arte solo come oggetto di consumo e a ridurla al suo impatto mediatico e semplificativo dell'opere d'arte, privilegia lo scarto di senso, "l'ombra" che ostacola ogni tentativo di comprensione e ci spinge a mettere in discussione le nostre categorie interpretative. Di qui la sua immagine che paragona l'arte ad una cripta dove sono nascoste gli oggetti preziosi, tesoro difficile da raggiungere, che chi cerca deve raggiungere senza fermarsi alla superficie.

Nel suo "L'arte espansa" (Einaudi 2015) prendendo spunto, tra l'altro, dalle strategie artistiche della Saatchi Gallery di Londra e della Biennale di Venezia del 2013, quella intitolata Il Palazzo Enciclopedico e curata da Massimiliano Gioni (da te citata), Perniola, con un certo entusiasmo, vede venire alla luce una svolta "fringe", di inglobare opere marginali o persino estranee ai suoi confini tradizionali.
"La scelta di Gioni di fondare la 56ma edizione della mostra d'arte contemporanea più prestigiosa ed antica al mondo su soggetti non riconosciuti come artisti dal sistema dell'arte, eppure in molti casi capaci di realizzazioni anche molto prossime a quelle che si sarebbero potute trovare in un museo o in una galleria nell'ultimo mezzo secolo, infrangerebbe così finalmente tale artificioso equilibrio, abbattendo il muro che preservava il carattere esclusivo dell'arte contemporanea ed abolendo così di fatto le regole non scritte che governano il suo habitat."
"Nel momento in cui tutto ciò che è 'fringe' può diventare istituzionale - avverte Perniola - si apre il problema della sua legittimazione e dell'autorevolezza di chi garantisce tale operazione".
Sembra che lo stesso Perniola avverte come lo scivolare da una parte all'altra sia un rischio presente, che bisogna affrontare, e giocare in qualche modo "custodendo" l'arte entro una "cripta", per riprendere una sua immagine, che conservi un suo cono d'ombra  come "riserva" di senso e interpretazione. 
(Basti pensare all'attuale polemica suscitata dall'intervento di ABO sul primato del sistema dell'arte sull'artista e l'arte).

Un altro aspetto affrontato riguarda il rapporto arte-società - politica, entro cui può emergere il rischio della propaganda. Tema anch'esso molto dibattuto a iniziare dalle avanguardie storiche del novecento. Si pensi alla figura di Benjamin, al confronto che intraprende con la tecnica e i sistemi di comunicazione.
Oggi sembra che il paradigma più in voga sia "l'artivismo" che mette in stretta relazione l'arte e la società. In Italia si veda a tale proposito il testo, di successo e tenuto in grande considerazione, di Aldo Trione per l'Einaudi (2022) dal titolo "Artivismo".
Trione tenta una ricognizione dell'arte contemporanea, quella che a lui sembra più significativa nel cogliere lo zeitgeist. Sembra, a suo dire, che l'impegno ne sia nuovamente una cifra importante.
Di qui il suo tentativo di darne una definizione, se pure articolata, e di classificare le varie forme e le varie declinazioni come si presentano in un mondo globalizzato ma ricco di differenza che vanno "valorizzate".
Sono protagoniste figure artistiche che si servono di linguaggi e media differenti che si misurarono con fatti e avvenimenti di cronaca e raccontano problematiche attuali della nostra società come il dramma dei migranti, le questioni ambientali ed ecologiche, le questioni di genere, di costruzione di comunità attive, con varie prospettive rispetto alle collocazioni geografico o alla forme globali di comunicazione.
La tesi centrale (ma non esaustiva del suo discorso) afferma:
"Intrecciando arte e impegno - dice Trione- si crea un panorama popolato di figure eterogenee: in alcuni casi, si limitano a registrare ferite e lacerazioni, sottraendo alla cronaca alcune visioni. In altri casi, entrano nel corpo del reale, immaginando ipotesi di riscatto urbanistico e antropologico: si prendono cura di parti del mondo, fino a dissolvervi le proprie opere. In altri casi ancora, per sottrarsi ai rischi dell'anestetizzazione e a quelli dell'estetizzazione del dolore, vogliono marcare una netta distanza dal giornalismo e dal documentarismo, inclini a coniugare verità e arbitrio, realismo e simbolismo, adesione ed evocazione. "
"Se dovessi confessare quali sono gli artisti politici che prediligo – aggiunge Trione – non esiterei a citare, tra gli altri, Kiefer, Kentridge, Boltanski, Kadishman, Farocki, Muniz, Wall, Neshat, Madani e Walker: ovvero, gli artisti «impolitici»".
Il termine "impolitico" richiama ad un elemento problematico, che vuole, forse, scongiurare il rischio di "dissolvere" l'elemento artistico nella finalità.

Ho cercato di riportare tale discussione in ambito teatrale, con particolare riferimento a ciò che viene individuato come teatro sociale (a partire dal teatro in carcere). Mi è sembrato opportuno riflettere sulle "criticità" che "l'impegno" implichi per il teatro (e l'arte). (Per un maggiore articolazione sul tema si veda il mio intervento nel blog al link).
In breve cerco di sintetizzare una discussione ancora tutta in corso rispetto ad ambiguità irrisolte (o irrisolvibili).
Il riferimento di partenza è la distinzione che Giacchetti, già dagli anni 90 poneva tra senso e funzione. Considerando la prima come l'aspetto fondamentale del fare teatro e la seconda come uso "strumentale" se pure sociale del teatro. E' chiaro che la distinzione va precisata, cercando di capirne gli intrecci senza confusioni e facili illusioni.
In riferimento al teatro in carcere Punzo, per esempio, ha sempre affermato che la scelta fatta di "entrare" in un carcere non è nata da un intento "di elevazione umane e sociale" dei detenuti ma dalla messa in discussione di alcune modalità di pensare il teatro e dal tentativo/necessità di trovare nuove potenzialità e modalità di fare il tetro, proprio a partire dalla lezione destrutturante e innovativa di alcuni maestri del novecento che avevano condotto il teatro al di là dei luoghi, delle forme e dei modi tradizionali e canonici. l'intento nasceva dalla necessità di fare teatro, creare teatro, "rigenerare" il teatro ampliando le modalità espressive e rinnovandone il senso a partire da una urgenza personale.
Mi sembra, dunque, che il punto focale sia il tetro. Ora per quanto riguarda la funzione, da questa prospettive è evidente che delle conseguenze possano esserci, e che questo lavoro può avere, necessariamente, delle ricadute per la vita dei detenuti e la struttura carceraria. Purtroppo nel rapporto tra senso e funzione sembra che sempre di più il tetro sia inteso in senso strumentale per raggiungere obbiettivi educativi, politici e sociali, e costruire rapporti economici ed istituzionali.  

Per concludere sull'immagine appunto una prospettiva d'indagine.

In riferimento a quanto affermato su "come la trasfigurazione e il frainteso a opera di una negoziazione collettiva dei sensi siano un elemento vitale, strutturale dell'immagine", mi sembra interessante fare riferimento alle analisi che Bernard Stingler ha condotto sulla "Miseria del simbolico" [ii] (anche per mostrarne gli aspetti critici).
Interessante potrebbe risultare a tale proposito prendere in esame le nuove forme di produzioni, le modalità di rappresentazione e costituzione di comunità. Affrontare il tema dello stare insieme a partire dalle forme assunte dalle comunità all'interno degli ambienti inter e crossmediali. Con particolare attenzione alle modalità con cui le comunità vengono rappresentate, vissute e costruite attraverso le serie tv, che sono oggi forme di narrazioni che abitano pervasivamente, performativamente e criticamente l'immaginario contemporaneo, si vede a tale proposito "Comunità Seriali. Mondi narrati ed esperienze mediali nelle serie televisive" di Massimiliano Coviello (Meltemi, 2022). 

Penso che l'arte giochi ancore tra l'utopia e l'eterotopia.





[i]
si veda il mio "Illusioni e ambiguità sull'arte teatrale" su questo blog
[ii]
si veda il mio "Note a Margine"  su Stiegler su questo blog






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