martedì 20 giugno 2023

Per Ermenegildo


Caro amico la tua richiesta è urgente ed enigmatica, se per enigma si intende il mistero della vita, verso cui si manifesta, come affermavano gli antichi greci, il θαμα,   il senso della meraviglia e del timore  difronte alla fragile esistenza. 


Nell'ascoltare la tua richiesta sorgono vari interrogativi che riguardano te (la tua situazione), la nostra esistenza e il teatro (il suo senso e la sua funzione). 

Mi colpisce, in primis, la tua domanda "perché devo assistere …". 

Risalta, in particolare, il verbo "devo", che porta in sé una certa ambiguità, che può riferirsi alla morale, indicando "l'obbligo" di fare un qualcosa secondo regole che appartengono alla coscienza o alla società intesa in senso lato. Oppure questo "devo" è prodotto da  una una pulsione (che costringe) o da un desiderio (che spinge). 


Io credo che siano presente tutte queste cose che creano un guazzabuglio di sentimenti, reazioni, colpe, che lottano tra loro senza trovare soluzioni dando vita proprio a quel θαμα, di cui si accennava, di fronte alla fragilità della vita e alla presenza costante della morte. 


Il teatro è una di quelle arti che ci mette di fronte alla vita con una certa immediatezza. Almeno in una parte del teatro contemporaneo che ha pensato di recidere il diaframma tra rappresentazione e vita, a favore della vita, mettendo il corpo al centro come esplorazione della differenza. 


Perché dico questo?

Hai citato nel titolo uno spettacolo a me caro "Otello Circus" con la regia di Viganò, il cui teatro è fatto da attori/attrici provenienti da mondi problematici. 


Viganò si pone fuori dalla logica strumentale dell'utilizzo di determinate forme del disagio per indurre a compiacenza o consenso. 

Rifiuta la prospettiva caritatevole, quella rassicurante e altruista del cosiddetto teatro sociale. 


Guarda, sicuramente ad alcuni maestri del novecento che nel loro viaggio artistico hanno ricercato e incontrato l'alterità (psichica, culturale, fisica, geografica ..) per ridefinire la sostanza e la forma teatrale, viaggio che  egli prosegue con un suo personale modo di concepire e praticare il teatro.  


Viganò, con cui ho avuto modo di confrontarmi,  usa dire che il teatro è "il luogo della ferita, il luogo che ci permette di mettere lo sguardo dentro le nostre malattie. Un luogo dove sporcarsi con il sangue e la merda di tutto ciò che ci definisce 'umani'. Un posto così non può che essere malato, contagioso". 


Per essere più chiaro riporto alcune sue affermazioni (tratte dal testo "La Malattia che cura il teatro", edito da D. Audino). 

Sono parole intense che vogliono sottolineare la necessità del teatro di confrontarsi con l'alterità per non perdere senso e orientamento (o trovare il senso e l'orientamento). 


"Il tratro è lo specchio delle nostre malattie, dei nostri incubi. Ma paradossalmente è proprio attraverso la ferita che andiamo oltre, che riusciamo ad immaginarci in altro modo. È la ferita che muove i nostri desideri e la nostra voglia di andare in un altrove. Il teatro diventa così un modo per dare senso al disagio, al dolore, al nostro sentirci inadeguati, alla nostra sofferenza esistenziale. Un luogo della mancanza dove la vulnerabilità e la sensibilità sono di casa: il teatro come luogo della trasformazione. 

Il luogo (del teatro) è stato sempre luogo della diversità. Degli stigmatizzati. È anche il regno dei 'mostri', dove però la parola 'mostro' prende un senso diverso, che finisce per combaciare con 'meraviglia'. È il mostruoso che rivela al mondo la natura dell'umano: le ferite hanno sempre a che fare con qualcosa che riguarda la nostra interiorità. Nella bellezza c'è il segno concreto della ferita e un teatro che non è dentro la ferita non sa diventare bellezza. Quando parlo di bellezza intendo la bellezza che inquieta, che spiazza  e ci trasforma". 


Mi preme sottolineare come questa ferita, chiaramente in modo diverso, rispetto alla vita, agisca su di noi. 

È un richiamo alla fragilità dell'esistenza umana, che difronte alle richieste tracotanti, sociali ed etiche, soprattutto economiche e concorrenziali, viene ricacciata, nascosta o addirittura rinnegata e sbeffeggiata. 


A conclusione, e come in tutte le conclusioni sarò banale, ritengo di partire proprio da questo. Dalla nostra fragilità, sapendo di non avere intelletto, animo e corpo divino.


L'incontro con questo tipo di teatro è l'incontro con noi stessi, le nostre contraddizioni e fragilità, dove non sempre sopraggiunge la catarsi. 


Il senso sta tutto nella contraddittoria umanità che siamo e che nonostante tutto, compreso i fallimenti, cerchiamo di rendere migliore, proprio nel farsi luogo d'incontro e relazione fra corpi diversi, che cercano alleanze come nel teatro. Tra soggetti che attraverso linguaggi e gesti propri ricercano un modo per essere se stessi con gli altri. 


I ragazzi e le ragazze che operano nel teatro di Viganò sono attori e attrici che fanno teatro non per manifestare una diversità che si normalizza, ma come soggetti attoriali la cui diversità si fa apportatrice di senso e forma espressiva, di espressione dell'umano singolo e comune in una azione che trasforma, come è senso e fine del teatro. Che questo possa inquietatci è vero. Ma la bellezza, come ci insegna l'angelo di Rilke può indurre al tremendo. 


"Chi, se io gridassi, mi udrebbe dai cieli
degli angeli? E se pure d'un tratto
uno di loro al cuore mi stringesse,
io nella stretta del suo grande esistere
mi perderei. La Bellezza non è che il primo aspetto del Terribile: e noi
la sosteniamo e l'adoriamo, a volte,
solo perché esso quieto disdegna
d'annientarci. Ogni Angelo è terribile."

(Rilke - prima elegia). 


Con affetto e stima

Francesco


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