Di viaggio (in viaggio). In treno con Platone
Viaggiare in treno è uno delle cose che mi è sempre piaciuti fare. Soprattutto quando, da giovane ragazzo, in treno si percorreva la nostra penisola per attraversare una miriade di mondi, avamposti ai confini dell’impero o travolti della frenesia dei tempi moderni.
Fu così che, in un’altra epoca, prima dell’avvento dell’alta velocità, che su invito di cari amici palermitani presi un treno da Battipaglia alla volta della città siciliana. Mi sarei dovuto fermare per alcuni giorni durante i quali avrei conosciuto, impattato e empatizzata con una città sempre presente nella mia fantasia, che all’epoca mi appariva straordinario incrocio di culture mediterranee.
Ma quel viaggio, proprio il viaggio in treno, fu particolare. Su quei binari e in quelle carrozze di seconda classe a scompartimenti, assunse quasi una dimensione onirica. E ancora adesso nella mia mente è una reminiscenza, una traccia mnestica ineliminabile. Infatti è un racconto che ripropongo, con variazioni dovuti al contesto occasionale. Rimane dentro di me come un archetipo che gioca ad elaborare il mio vissuto.
Fu così che il viaggio iniziò tra il vocìo di tanti napoletani, meglio di gente provenienti dell’hinterland napoletano, con le varie intonazioni dialettali, in una confusione allegra e caciaresca ma non fastidiosa. Frenesia delle vacanze, che spostava masse di partenopei sulle coste calabre.
Riuscii a trovare un posto in uno scompartimento pieno ma non scomposto, non si usavano molto le prenotazioni e non c’era internet a disposizione per rendere comodo la vita. In particolare ricordo una signora che vistosamente soffriva il caldo, cosa che marcava spesso con il movimento energico del ventaglio e con espressioni colorate e divertenti, dall’intonazione napoletana.
Il viaggio prosegui nella confusione, e il sovraffollamento, che man mano mentre attraversavamo i luoghi di balneazione della costa calabrese si sfoltiva. Verso il tardo pomeriggio, in prossimità di Scilla, il mio scompartimento si svuotò, restando da solo dopo gli ultimi saluti ad un ragazzo calabrese che tornava al mare, da Milano, dove lavorava come operaio. Non lo capivo molto nel suo parlare con una lingua ibrida tra un esotico milanese acquisito e un calabrese edulcorato. Ma notavo la sua felicità di essere giunto a destinazione. Mi augurò buon viaggio e poi si tuffo nel sui mondo circondato da un nugolo di parenti.
Io, appena reduce da una brillante laurea in filosofia, a quel punto, solo e sul fare della sera, estrassi dalla borsa i Dialoghi di Platone, il primo volume delle edizioni Einaudi. Insomma confesso che mi piaceva e ancora mi piace leggere nei treni. Uno dei pochi luoghi in cui riesco a raggiungere una buona concentrazione, interrotta a momenti, dallo sguardo che può fuggire oltre i finestrini a cogliere scorci di paesaggi come quadri che cambiano in continuazione le sfumature dei tratteggi e dei colori.
Immerso in considerazioni letterarie e filosofiche, avvertivo una strana presenza. Mi resi conto ad un certo punto che il capotreno, era passato più di una volta sbirciando con fare furtivo verso di me. Feci finta di non notare la cosa e restai concentrato nella lettura, mentre passeggeri transitavano nel corridoio alla ricerca del bagno, o si preparavano a scendere alle stazioni di turno, accorgendomi dei tanti bambini che insieme ai genitori si erano sobbarcati un viaggio lungo e in condizioni non agevoli, sopratutto per il caldo (non c’era aria condizionata in quei vagoni). E mentre stavo lì a rielaborare considerazioni mistico - filosofiche ecco apparire, con l’indice rivolto verso di me il capotreno. All’istante la cosa mi fece un certo effetto e indietreggiai con la testa con uno sguardo interrogativi. Ricevetti subito dall’altra parte un sorriso, con l’aggiunta di una domanda. Il capotreno , arcuando le sopracciglia e stringendo lo sguardo per raggiungere chissà quale profondità dell’anima e del pensiero, disse in tono, tra l’interrogativo e l’esclamativo: Platone, filosofia, dando alla parola una intonazione cavernosa che alludeva a chissà quale mistero.
Risposi si, con una certa ritrosia - non volevo che la mia lettura fosse intesa come mera appariscenza intellettuale. Cercavo di sminuire la cosa blaterando di curiosità, ricordi liceali e via dicendo. In seguito mi pentii di non essere stato franco con lui perché si dimostrò una persona gentile e di una certa cultura.
Il viaggio proseguí e, nonostante le interruzioni dovute alle sue incombenze di capotreno, ritornava da me per riprendere la conversazione da dove si era interrotta per un momento.
Si parlò, come succede spesso, sul senso della filosofia. E mentre la conversazione continuava il tono diventava sempre più confidenziale e tra un’allusione filosofica, le sue reminiscenze scolastiche sul Simposio di Platone, la conversazione, svoltò per il vicolo dell’amore e girò l’angolo per scontrarsi coi fallimenti sentimentali. Così, nella confidenza più intima venni a sapere come il suo amore, (e qui la sua voce risuonava di profonda nostalgia), la rottura, cioè, del fidanzamento con la sua donna l’avesse condotto ad un crollo sentimentale e psicologico, che gli fece abbandonare gli studi universitari e intraprendere un’esistenza inquieta ancora non del tutti riappacificata con la vita.
Giunsi a Palermo, ormai senza avere più cognizione del tempo, e di un tratto realizzai che dovevo scendere, ci salutammo tra i sorrisi e le strette di mano, con una sfumatura malinconica perché fra qualche attimo i nostri destini avrebbero continuato per le loro strade senza mai più incontrarsi.
In quegli istanti avvertii l’evanescenza del tempo e contemporaneamente ero consapevole di come ogni istante incida però in modo indelebile sulla tua esistenza, che è fatta dell’esistenza degli altri. Tracce del mondo interiore che compongono la molteplicità dei nostri io che poggia su pezzi di altri io. Scesi e nell’incontro con i miei cari amici, anche loro pezzo indelebile della mia esistenza, e la città di Palermo iniziò una vacanza ricca e intensa di avventure sentimentali ed intellettuali in una città che mi dava l’idea di sperdemi tra la storia e tra i sud del mondo.
Realizzai che quell’incontro mi avesse reso più filosofo di quanto io pensassi, facendomi capire l’inestricabile intreccio tra vita e filosofia, nonostante che la filosofia sembri agognare a mondi iperuranici.
Quel mio viaggio ha avuto la duplice andatura della catabasi, un’esplorazione di una profondità esistenziale e di un’anabasi che mi ha riportato al senso del nostro vivere nella ricerca di incontri opportuni.
L’ho fatto con abitanti di questo mondo, che si aggirano, con le loro precarie esistenza, dentro la polis alla ricerca della relazione con gli altri.
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