Riporto la mia "lettura" dell'ultimo opera del poeta di Domenico Brancale "Dovunque acqua sia voce" (Edizioni degli animali, 2022) in occasione della sua presentazione il 4/11/2023- presso galleria Civica a Potenza nell'ambito del Città delle 100 Scale Festiva 15 edizione.
Ospiti oltre l'autore, Stefano Bottero (critico e poeta).
Pensiero e poesia. Dire l'Arché con Domenico Brancale
una lettura di "Dovunque acqua sia voce" di Francesco Scaringi
Ho conosciuto Brancale grazie al soggiorno di John Giorno in Basilicata, con cui entrammo in relazione (2007?). Poi lessi alcune sue cose e fui impressionato di come un "poeta" che, un po' frettolosamente, mi era stato presentato secondo un certo meridionalismo di maniera, potesse avere, almeno secondo me, una sensibilità poetica che mi richiamava la Mitteleuropa, carica d'interrogazioni esistenziali e l'esigenza di nuove forme espressive e artistiche
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Scrissi qualcosa, cercando di evidenziare questa mia sensazione, non giustificata da nessun corredo di analisi filologico - letteraria[1]
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Qualcosa di vero c'era in quella intuizione che mi venne confermato dalla performance "Incerti Umani" (2015) che Brancale preparò esplicitamente per la quinta edizione del festival e dal suo vivere
, da "sradicato", tra Bologna e Venezia, città dai trascorsi austroungarici, legata a un mondo poetico-letterario che porta a Vienna e Parigi.
Questa sera voglio ulteriormente approfondire qualcosa di questo che vi ho detto. Ma mi necessita leggere il testo. Vi invito ad ascoltare con una certa attenzione, cercherò di sottolineare i termini che per me risultanti densi di significato rispetto a quello che dirò:
Lettura
"Nello spazio tra una parola e l'altra vive il pensiero. Una sorte di respiro spezzato, quale sospensione che permette al poeta di contemplare per un istante nient'altro che la sua voce"
"Apriamo la finestra. Una folata di rumori ci raggiunge: l'urlo di una saracinesca, lo squillo sordo di un citofono, il fruscio delle foglie. Riconosciamo nella lingua delle cose la nostra parte muta" (p.33)
"Da questa finestra il mondo di fuori e il mondo di dentro stanno nel vaso crepato della memoria. Il verde della lingua germoglia nella frase. La saliva impasta tutte le illusioni, ciò che ho creduto verbo al culmine della nuda disperazione"
"Esiste una parte di noi che non possiamo incontrare poiché vive sempre al di fuori del nostro presente. Questa parte ha le sembianze di un estraneo. Scrivere è il tentativo di tradurre la voce dell'estraneo che è in noi. Scrivere è vivere lo spaesamento, il perturbamento che si prova quando ci si sfiora" (p. 34)
Il mio intervento sarà un commento a queste parole.
La forma del testo.
Parto con qualche riflessione sulla forma del testo.
Su come il testo è scritto. Infatti se si pone attenzione io non ho letto dei versi eppure parliamo di poesia e di un poeta di grande valore, con cui vorrei interloquire più che fare una semplice presentazione di circostanza[2]
.Il testo è strutturato per "temi", intorno a cui si addensano frasi, schizzi, forme aforistiche, sentimenti personali, sentenze, interrogazioni, citazioni, versi, lemmi di dizionari, traduzioni, che alludano ad uno sfondo comune.
L'autore dice che sono scarti, stratificati nel tempo, ripresi, e riconsiderati, grazie anche ad amici che hanno apportato il loro contributo.
Io lo considero un piccolo e occasionale Zibaldone in cui "rovistare" per andare al cuore dell'atto "creativo", in prossimità del momento in cui vi è conflitto tra ciò che può essere detto e scritto e quindi assumere un valore anche per altri.
Qualcuno potrebbe dire (i più ingenui compreso me) ma con che tipo di poeta abbiamo a che fare?
E dov'è la poesia, dove stanno i versi poetici? E allora di chi e di "cosa" stiamo parlando?
Vorrei rispondere a questi quesiti privilegiando un punto di vista filosofico (però non estraneo al contesto).
Poesia e filosofia
A tale proposito devo fare, per rendere pregnante il discorso, alcune brevi considerazioni sulla letteratura, la poesia e la filosofia.
In generale, il rapporto tra filosofia e poesia, nel Novecento in particolare, è stato caratterizzato da una forte interazione. La poesia è stata vista come un modo più diretto di esplorare le grandi questioni dell'esistenza umana
. Mentre la filosofia ha trovato nella poesia il luogo capace di creare nuove forme di pensiero e di espressione, sfidando le categorie tradizionali della filosofia[3]
.Molta parte di essa (cioè della poesia) si è interrogata in modo "radicale" sul senso della poesia, sul rapporto tra linguaggio e mondo.
Interrogazione che ha messo in discussione i confini, le delimitazioni tra varie modalità di espressione, per esempio tra prosa e poesia, tra forma contenuto, parola e significato, voce e parole.
Così come parte della filosofia ha trovato nell'arte e nella poesia il luogo privilegiato per interrogare la verità o meglio per la messa in opera della verità.
Heidegger e Benjamin: il pensiero poetante e la Nominazione
Prenderò come riferimento due importanti filosofi del novecento, che mi serviranno come base di appoggio per alcune considerazioni sulla poesia di Brancale. Chiaramente non ne è una trattazione esaustiva, mi limito ad una estrapolazione (priva di analisi) di concetti significativi.
Il primo è l'Heidegger della cosiddetta svolta (Kehre) il cui intento filosofico è teso a sviluppare una nuova modalità del filosofare con l'obbiettivo di superare i limiti della metafisica (pensiero) occidentale che ha trovato il suo compimento, in senso nichilistico, nella tecnica, Heidegger ripensa a termini fondanti della filosofia come Αλήθεια, das ding ( la cosa), essere - ente, tempo - spazio, per oltrepassare (huber) la metafisica occidentale, proprio richiamandosi all'arte (meglio all'opera d'arte) e alla poesia, in quanto il "linguaggio è la casa dell'Essere". Fa riferimento, tra le altre cose, al poeta Hölderlin[4] che rappresenta, secondo lui, l'idea del "pensiero poetante", ovvero della capacità del pensiero di creare nuove forme di espressione e di rinnovare il linguaggio. Questo concetto è strettamente legato alla concezione heideggeriana dell'essere come evento (Ereignis), direbbe Vattimo come indebolimento di ogni struttura metafisica dell'essere, che implica una costante rielaborazione del significato delle cose.
Un altro pensatore che voglio richiamare è Walter Benjamin, che riflette sul linguaggio, riflessione che trova radice nella Cabala ebraica Benjamin, rifacendosi al testo biblico, ritiene che l'essenza del linguaggio sia nella nominazione. Nel Genesi,
Dio nomina le cose creandole, lega il nome al fiat. Il nome, come attesta l'atto della creazione, corrisponde pienamente all'essenza della cosa creata.
Adamo, immagine di Dio, nomina le cose perché esse si manifestino di fronte a Dio tramite la dimensione propria del linguaggio "spirituale" originario dell'uomo edenico.
Le cose stesse, pur se a un grado inferiore, posseggono un loro linguaggio espressivo muto, che è "redento" dal linguaggio di Adamo grazie al quale, esse, si elevano oltre il mutismo che le caratterizza.
Il peccato originale, cioè la sete di conoscenza, causa la caduta che porta all'incapacità della lingua umana di cogliere le cose, che ritornano ad un mutismo deteriore. Il mito babelico, inoltre, frantuma il linguaggio originario, riducendo la lingua alla funzione comunicativa e nello stesso tempo la dissemina nella molteplicità delle lingue umane e storiche, l'una diversa dall'altra.
Dunque la parola perde la sua essenza divina per divenire solo umana, il nome perde la sua funzione e la parola non incontra più la cosa.
La parola diventa segno astratto (ab trarre) referenziale (e autoreferenziale) mentre la cosa è ridotta ad oggetto.
La lingua non dice più l'essere della cosa ma sta al posto della cosa.
E dall'altro lato se la natura potesse parlare si avvertirebbe un lamento, perché essa in quanto "espressione" divina non può essere detta in parole.
Scrive Benjamin
"Il lamento è alito sensibile inarticolato, ma è anche appello al nome. Ovunque un albero stormisce echeggia insieme un lamento: dove la natura si esprime nella sua lingua materiale, vi è perciò stesso comunicazione, appello, affinché tale espressione sia raccolta e detta".
"Se prima il mondo taceva, ma vedeva accolto il suo muto appello e trovava nella parola dell'uomo espressione adeguata, ora il mondo è messo a tacere e nelle parole dell'uomo sente ancora più profonda l'estraneità a cui è condannato".
Insomma, per "mixare" un po' di Heidegger e un po' di Benjamin
l'uomo viene sprofondato nell'abisso estraniante della ciarla[6]
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Le cose ammutoliscono perché la parola dell'uomo, con il chiasso assordante delle lingue babeliche, dei nomi molteplici, effimeri, indifferenti, con le sue lingue specializzate, i suoi gerghi tecnici, le ha rese semplicemente oggetti d'uso, nient'altro che oggetti d'uso[7]
"Però esse non perdono, quella voce-matrice originaria universale, a cui attingere simbolicamente per l'apertura al senso, irraggiungibile però nella sua pienezza originaria.
Si apre una frattura che difficilmente risulta colmabile ed il tentativo che fanno in maniera diversa i filosofi, i traduttori, i poeti, è di ricomporre questa frattura, a partire da quella matrice originaria. I poeti, in particolare, per ridare voce alle cose, privati del loro muto linguaggio espressivo.
Un poeta caro a Brancale, Edmond Jabès
Mi soffermo, a mo' d'esempio, su un poeta che conta molto per Brancale, Edmond Jabès.
La poesia di Edmond Jabès è caratterizzata da una forte attenzione alla parola e alla sua capacità di esprimere concetti complessi e profondi[8]
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Esplora anche il tema dell'identità culturale e della diversità, riflettendo sulla propria esperienza di essere un ebreo in esilio.
Dal punto di vista formale, la poesia di Jabès si distingue per l'utilizzo di una "prosa poetica", che rompe con le convenzioni della poesia tradizionale. Le sue opere sono spesso organizzate in sequenze o cicli, che creano un'unità tematica e formale.
Inoltre, la poesia di Jabès è caratterizzata da una forte tensione tra la parola e il silenzio, che rappresenta la difficoltà di esprimere la "cosa" attraverso il linguaggio. La sua poesia è quindi spesso misteriosa e ambigua[9]
.
Interessante quanto scrive a tale proposito Donatella Bisutti
"Moltiplicando senza fine la contraddittorietà implicita nella scrittura, impedendo la fissazione del senso con lo spostarne incessantemente i limiti più in là e con l'operare una continua rottura sul vocabolo, sulla frase, nei sei libri Des questions e nei successivi Jabès è andato così nella direzione di uno smantellamento del testo che arriva a farlo esplodere dall'interno, tendendolo fino alle estreme possibilità del linguaggio. Ma, all'opposto, ha anche concepito la sua opera come un'immensa costruzione – di cui metafora potrebbe essere una vuota cattedrale – fatta per durare (per entrare nella durata), riprendendo così, non a caso, il senso del titolo di quella sua prima raccolta, Je bâtis ma demeure"
Penso che il testo di Brancale, si collochi nel solco di questa interrogazione, che, anche attraverso la forma, pone in "discussione" come il mondo appare nell'orizzonte del linguaggio.
La forma include la poeticità del discorso, che è un peregrinare intorno e sul "senso" del dire e il che "cosa" dire.
Letture
"Ogni poesia è un'interrogazione che promette il silenzio. O meglio, la sola promessa che la poesia può mantenere è quella del silenzio" (p.38)
"Ciò che rimane inespressa della parola ha il carattere della materia. Qualcosa al di là di lei grida per venire alla luce. Qualcosa in cerca di forma" (p.40)
Cosa riguardano le interrogazioni:
● La parola e il dire, cioè la capacità della parola di rivolgersi al mondo, e al luogo della sua originaria provenienza
● Il dire e l'esistenza, nel senso della capacità espressiva del proprio sentire nel rapporto tra l'io e mondo;
● L'esistenza cioè l'essere nel mondo, dove il mondo si articola tra l'umano e il non umano [11]
Devo sottolineare quanto sia importante questa interrogazione, perché è qualcosa che riguarda la stessa idea di umanità.
Alludere al fatto che queste interrogazioni sono parte costitutiva dell'essere umano, proprio in quanto produttore di linguaggio (appartengono alla sua antropogenesi).
Il linguaggio, nella sua evoluzione, cerca di "cogliere" il mondo su cui si staglia l'esistenza dell'essere umano (la mia e l'altrui esistenza), contrariamente agli altri esseri non umani.
Di qui però un paradosso: il linguaggio umano (babelico) continua a mantenere un costante rapporto con la sua provenienza dall'immemore e dell'inarticolato, perché nonostante il linguaggio l'essenza della cosa risulta incoglibile per sua stessa natura[12] (il linguaggio muto delle cose)
N.B[13] Questo emerge in particolare nella performance di Brancale dove l'elemento voce va oltre il significato del detto, si lega alla corporeità, agli aspetti dell'animale e del vegetale (asino, agave) al linguaggio muto delle cose.
Letture
pp. 80/81(L'animale qui presente).
Ih-Oh, Ih-Oh, Ih-Oh, e io non voglio essere più Ih-Oh, non voglio più l'essere.
Intendere il raglio è l'esperienza del «non c'è niente da dire, niente da fare», e non c'è che questo niente in cui credere e gettarsi, là dove la parola poetica si dice e si scrive nel tremore di un fallimento, nella luce smarrita di un corpo che muore e di un altro che nasce. Intendere il raglio è riscoprire la propria identità nell'altro, scoprire nel volto umiliato della bestia l'invisibile divino.
L'animale è la ferita dell'uomo. Quello che siamo stati e quello che non siamo ancora. Incarnare l'animale poeticus è recitare la parte eterna.
Scannaciucce è il nome crudele che nel dialetto lucano di Sant'Arcangelo i contadini diedero alla pianta dell'agave. Ai bordi di sentieri argillosi, le sue lunghe foglie contornate di spine ferivano con amara ferocia (scannare) l'asino (ciucce) al suo passaggio: una beffa della soma con la sua corona di spine imposta all'ignorante, all'idiota-poeta il cui idioma si scandisce in ragli, come una voce che dal silenzio si allarga e si sgrana fino allo strazio.
Il tempo durante il quale si rimane esposti al silenzio che attraversa la parola dipende dalla sensibilità che abbiamo raggiunto.
La voce non è altro che un avvenire del silenzio a se stesso.
Dove voglio andare a parare con questo passaggio?
Questa originaria "scissione" della parola porta con sé l'eco di una dimensione panica, sarebbe meglio dire una dimensione "unitaria - panteistica" perduta e continuamente rievocata e ricercata.
Vediamo se riesco ad esprimerlo ancora meglio.
La parola è "aperta, si schiude perché "lacunosa" rispetto al senso. Ha bisogno di fluidificarsi per adeguarsi alla "cosa", che in realtà, nonostante l'apparente rigidità, è metamorfica, nella sua essenza non sostanziale.
La parola strutturata entro la sintassi, avverte i propri limiti rispetto a un senso invece che fa riferimento al tutto.
Il linguaggio segmenta il mondo per dirlo e rappresentarlo e contemporaneamente manifesta l'esigenza di questa relazione con il tutto.
Lettura
"Ci sono momenti in cui torno indietro fino all'acqua, fino al giorno in cui siamo stati un atomo prima dell'acqua. Nella notte più fonda. Incolori, insapori, altamente infiammabili. Pronunciamenti di stelle. Senza la minima idea che ogni cosa avrebbe avuto una durata. Veniamo dalla fine" (p. 41)
l'Archè
Nel testo è fatto esplicito riferimento a Eraclito per sottolineare il senso del divenire e dell'acqua come elemento primordiale.
Azzardo, certo più in senso metaforico che argomentativo, a dire che qui "l'acqua-parola (elemento e parola)" può essere assunta come archè, nei termini che i filosofi presocratici (fisiocratici soprattutto che facevano riferimento alla Phisys, intesa come natura). Talete, Anassimandro, Anassimene intendevano archè come l'origine di ogni cosa.
Un ritorno a quegli albori della filosofia quando si cercava di porre un confine tra Mito e Pensiero.
Eppure come ad ogni tracciamento di confine, almeno alle origini, non si produce immediatamente separazione.
È ancora un dire in cui la ragione trova nutrimento nell'immaginazione, nella tradizione della narrazione mitica. Alcuni
filosofi parlano anche in versi (Parmenide, Eraclito, l'oscuro[14]
In questo frangente, almeno secondo me, persiste ancora l'ambiguità tra la parola che volge alla definizione e la tensione a relazionarsi
con il tutto, perché è di esso di cui bisogna dare ragione, scopo questo anche del mito.
Rubo allusivamente una citazione a Giorgio Colli dal suo "La nascita della filosofia [15]
"Ciò che è enigmatico, ciò che si nasconde è l'anima, me stesso, il logos, il cuore indicibile, l'armonia, la sostanza… il divino. Dice Eraclito: "Phisys ama nascondersi".
"Se l'enigma nasconde, il sapiente è colui che ha il pathos del nascosto. Il sapiente è colui che non si lascia ingannare da ciò che gli si mostra: il sapiente è colui che sa andare oltre le apparenze".
Se la modernità ha teso ad una separazione tra soggetto e mondo, agli albori della filosofia, essere nel mondo significava esserne parte, una parte che si rapporta al tutto.
Ritengo che lo sfondo mitico, si conservi anche nella forma del dire filosofico originario, perché conservare l'impronta del tutto prima che la scrittura, come dice Vernant, incominci a proporre una sistematica razionale, discorsiva argomentativa.
Il conflitto tra linguaggio e mondo, di cui siamo portatori sta nell'avere consumato tale sfondo, "mondo – tutto", e la parola si è discostata dalla "cosa" non più posta e compresa nella sua relazione al tutto.
Il poeta compie un gesto radicale: lascia il mondo senza parola, o per dirla in altri termini resta la "cosa muta", che cerca la "parola-tutto".
Il dolore ne è segno potente
Lettura
"Nella sofferenza, nel grido disperato si riappropriano dell'eco animale. S'immolano a ciò che più alto c'è in loro, il sangue, il sempre a venire. Lo scarto in cui le cose dicono l'essere già stato.
Ma cosa sono queste cose? Sono i nomi a riempirle, gli stessi nomi che le svuotano" (p.57)
Il poeta è espressione di "una mancanza". Da una parte "disarticola", destruttura il linguaggio privo, ormai, di cogenza, dall'altro compie lo strenuo tentativo demiurgico di rifondare il linguaggio e il mondo.
Opera una sospensione estatica del dire, mentre il mondo appare, si manifesta "muto" nella sua consistenza e originarietà affinché la parola possa (ri)nominare, consapevole del rischio che ha d'infrangersi o disperdersi nel nulla, se poeticamente non apre all'infinita relazione tra le cose ri-nominandole.
Io penso che molte di ciò che ho cercato di tratteggiare lo si può riscontrare nel testo di Brancale
Concludo, a sottolineare quello che ho detto, Leggendo un brano che ci porta alla sua originaria
provenienza poetica… leggo direttamente dal libro pag. 19
"Il passato è ovunque. Getta ombre sul nostro cammino. Ma non tutte le ombre vengono per nuocere. Nell'ombra ho avuto il mio primo incontro con l'anima. Ho imparato a riconoscerla in quella degli alberi, della pietra e persino in quella di un granello di sabbia. L'ombra è l'anima allo scoperto delle cose. Senza di essa non vi è resistenza. Per questo si teme l'ora meridiana, l'ora in cui il sole traccia una verticale sulla terra, l'ora in cui l'anima si rintana nei corpi. Chi non fa ombra non esiste. Riconoscere la propria ombra è accettare l'anima. L'ombra è la rivelazione di ciò che ignoriamo, la parola della quale non si sa se abbia mai attraversato la barriera che separa il suono dal silenzio, quando apparenza e significato diventano una sola cosa. La parola, grazie alla quale pronunciamo tutte le parole. La parola cieca che tornerà a vedere. Una volta nel passato sono stato molto vicino a oggi."
Scritto da Francesco Scaringi
[1]Forse la suggestione nasceva dal fatto che ero alla prese con una lettura di De Martino, che lo svincolava dalla "riduzione" del grande etnografo ad un "Sud e Magia" meridionalistico, per interpretarlo, come oggi si fa, entro la discussione filosofica europea con le grandi correnti filosofiche e antropologiche del novecento, che hanno segnato la cosiddetta filosofia della crisi e i fermenti culturali che hanno attraversato il mondo dopo la seconda guerra mondiale, tra blocchi contrastanti, pericoli atomici e sviluppo della società moderna all'insegna del boom economico in contrasto con sacche profonde di arretratezza. Soprattutto della sua levatura antropologica in rapporto al confronto con Lewis Strauss.
La stessa cosa lo avvertivo per Albino Pierro, schiacciato eccessivamente sulla dimensione meridionalista di maniera.
[2]Il che pone anche degli interrogativi su alcune questioni inerenti la poesia, la sua tradizione e le avanguardie, il novecento e l'attuale disarticolazione del linguaggio
[3]In particolare, la filosofia esistenzialista ha avuto un forte impatto sulla poesia del Novecento, con autori come Heidegger, Sartre e Camus che hanno cercato di esplorare le grandi questioni dell'esistenza umana attraverso la poesia. Allo stesso tempo, molti poeti hanno sviluppato una forma di poesia "filosofica", che cerca di esplorare temi come la verità, l'essere e la conoscenza attraverso l'uso del linguaggio poetico.
[4]Per Heidegger, Hölderlin è il poeta che ha espresso in modo più autentico la condizione dell'uomo moderno, la sua alienazione dalla natura e la sua difficoltà a trovare un senso nella vita. Inoltre vede in Hölderlin un interprete della filosofia di Kant, che ha messo in discussione la possibilità di conoscere la realtà in modo oggettivo e ha evidenziato il ruolo dell'esperienza soggettiva nella costruzione della conoscenza.
[5]Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo (über sprache überhaupt und über die sprache des menschen) – [in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962],
[6]Termine che Benjamin riprende da Søren Kierkegaard
[7]In questo passaggio mi sono avvolso della lettura di Giulino Antonella, contenute nei suoi articoli al link:
Per allargare l'orizzonte di riferimento bisogna pensare anche a tutto quel filone poetico che trova decisivo l'interrogazione intorno alla capacità e possibilità di esprimere l'alterità e l'estraneità mi riferisco poeti come Jabès, Rilke, Celan che sono sicuramente presenti in Brancale, a filosofi come Levinas, Harendt, o ancora a poeti e filosofi che si sono rivolti alla natura quale luogo fondante dell'essere. O ancora a quei poeti che sconfinano nel pensiero mistico.
[8]Contenutisticamente, la poesia di Jabès si concentra sulla ricerca dell'essenza dell'umanità e sulla relazione tra l'individuo e il mondo. La sua poesia è spesso oscura e criptica, utilizza un linguaggio simbolico e metaforico per esplorare temi come la condizione umana, la morte, la fede e la spiritualità.
[9]Tra gli scrittori e poeti che possono accostarsi a Edmond Jabès, possiamo citare Paul Celan, Samuel Beckett, Jorge Luis Borges e Italo Calvino. Come Jabès, questi autori hanno operato sul linguaggio per saggerne le possibilità narrative simbolico e metaforiche, esplorando nuove forme espressive non convenzionali, la tensione tra la parola e il silenzio per esplorare temi esistenziali e filosofici.
[11]Con l'avvertenza però che tutto questo non è assolutamente dato con semplicità, ma dentro un conflitto irrisolvibile
[12]Posso magari riassumere tutto questo in una formulazione antropologica con riferimento all'antropogenesi.
Una sintesi (evolutiva) approssimativa che potrebbe suonare così: Nel Immemore originario il suono inarticolato del corpo precede il dire. Con lo sporgere dalla natura dell'umano, il segno indicativo si fa linguaggio per dire il mondo nella mediazione tra io e gli altri.
[13]A proposito di Jabes dice laBisutti:
"Ne Le livre des Questions Jabès aveva meditato a lungo su un altro «luogo» del corpo: la bocca – dove la parola prende forma – in quanto sede di una possibile intersezione fra il Corpo e lo Spirito, momento di una possibile coincidenza. Ma la bocca è anche sede della phonè, cioè di quel grido originario, simbolo della rottura fra la Parola di Dio e la nostra parola, che indica lo spezzarsi dell'armonia dell'uomo con l'universo. Grido che segna la nascita del linguaggio, inutilmente teso a recuperare quella parola perduta, e al tempo stesso fa per sempre dell'uomo un «separato». Grido che accompagna l'infrangersi delle Tavole. Così, non solo l'origine della parola, ma anche l'origine della scrittura veniva indicata simbolicamente da Jabès in una lacerazione drammatica, in una prima ferita esistenziale di cui solo un suono inarticolato contiene l'esperienza. Senso e perdita di senso coincidono per lo spazio di un attimo, prima di separarsi definitivamente, in una voce che è espressione immediata della carne e della sua sofferenza. Da quel momento non solo la parola non conterrà più la Parola, ma non potrà neppure contenere più nella sua interezza il grido. Il passaggio dalla Parola alla parola avviene necessariamente attraverso il grido e resta necessariamente univoco. Da questo grido ha inizio la Storia e al tempo stesso esso tutta la racchiude nella suprema sintesi di un istante."
[14]Parmenide adottava uno stile di scrittura poetico e metaforico, mentre Eraclito era noto per le sue affermazioni enigmatiche e aforismi controversi. Entrambi i filosofi avevano un impatto significativo sulla filosofia occidentale, ma lo facevano attraverso approcci stilistici e concettuali molto diversi.
[15]Il pathos del nascosto.
Ciò che è enigmatico, ciò che si nasconde è l'anima, me stesso, il logos, il cuore indicibile, l'armonia, la sostanza… il divino. Dice Eraclito: "Phisys ama nascondersi".
La citazione l'ho tratta da Giorgio Colli in La nascita della filosofia, il quale ancora dice che
"Se l'enigma nasconde, il sapiente è colui che ha il pathos del nascosto. Il sapiente è colui che non si lascia ingannare da ciò che gli si mostra: il sapiente è colui che sa andare oltre le apparenze".
E qui Colli riporta le leggende circa la morte di Omero dove si racconta che il più grande sapiente tra tutti gli uomini, interpretando in questo senso un responso dell'oracolo di Delphi, tornò molto vecchio sull'isola che lo vide nascere. Qui, sulla spiaggia, incontrò due giovani pescatori intenti a spidocchiarsi l'un l'altro e chiese loro: "com'è andata?" I pescatori risposero "quel che abbiamo preso l'abbiamo buttato e quel che non abbiamo preso lo portiamo".
Pare che Omero sia morto così, disperato per non aver saputo intendere quella risposta: ingannato dai due pescatori, morì il sapiente. (Giorgio Colli, La nascita della tragedia)
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