L'ultimo film scritto e diretto da Pedro Almodóvar, "La stanza accanto", vincitore della Palma d'Oro alla 81ª edizione della Mostra di Venezia, riporta, adattandolo, sullo schermo cinematografico il romanzo di Sigrid Nunez "What Are You Going Through" del 2020, che in italiano, nella traduzione di Paola Bertante, prende il titolo di "Attraverso la vita" (Garzanti, 2022).
Nella prima conversazione tra le due amiche del film, Marta e Ingrid - interpretate rispettivamente da Tilda Swinton e Julianne Moore - Marta pronuncia la frase "Sopravvivere è banale". Reduce dall'ultima chemio, poiché malata terminale di cancro, dice con dolore come la vita, per essere vita, debba essere vissuta dignitosamente, altrimenti è meglio lasciarsi andare.
Ritornerò presto sul film e Almodóvar. Vorrei per un attimo riflettere su questa espressione "Sopravvivere è banale", sciolta, apparentemente, dal contesto del film perché mi ha assillato nel corso del film e mi sembra una questione fondamentale.
È un interrogativo che ci sollecita a riflettere sulla nostra vita e sul suo senso, oltre che sul dolore e la morte.
Cosa si intende per vita? Qualcosa che sicuramente va oltre il pur se necessario biologico. È qualcosa strettamente intrecciato all'essere donna o all'essere uomo, alla consapevolezza del valore della propria esistenza. Certo, non c'è un metro universale per "misurare" un unico valore. Diverse possono essere le "sovrastrutture" che danno un senso alla nostra vita: la religione, le ideologie, l'arte, il lavoro, l'educazione che riceviamo, servono come bussola per tracciare una direzione entro orizzonti più certi. E questo per molti è necessario. Per altri, necessario ma non sufficiente. Vi è un "eccesso" indefinibile che appartiene a ciascuno di noi, che è qualcosa di così "particolare" che ci rende quello che siamo. È la costruzione della nostra singolare esistenza, che riguarda il campo delle possibilità e delle scelte con cui ci misuriamo, decidiamo, che disegnano il quadro della nostra esistenza e che ci appartengono, su cui il giudizio altrui conta molto relativamente. Ma è anche ciò che rende la nostra vita non "banale", se ci dona la libertà di essere e poter essere.
Sembra che l'indirizzo preso dalla mia riflessione stia seguendo un percorso filosofico, e come ogni sguardo "filosofico" attento non può fare a meno di relazionare la vita alla morte. All'ineluttuabile di cui essa è impregnata, a cui non si può dire di no. Tale consapevolezza ci pone di fronte a un paradosso esistenziale: essa dà senso alla nostra esistenza se proprio nell'intimo rapporto con essa si dice sì alla vita secondo quell'appello nietzscheano che ingiunge a cogliere la vita sino nel fondo della sua tragicità.
Il film insegue gli interrogativi che ci siamo posti e lo fa nel modo di Almodóvar, che nel corso del tempo ha smussato la sua furia iconoclastica e "rivoluzionaria" per trovare più profondità nel narrare la condizione umana, con le sue discrasie e fragilità e quanto essa ha dentro di sé forza e potenza generativa.
I poli della vita e della morte sono sempre presenti nei film di Almodóvar, s'inseguono l'un l'altro aprendo lo spazio dell'esistenza alla pluralità delle differenze che l'abitano, ai contrasti che emergono. Così come il rapporto con la madre, che resta un legame fondamentale per la generazione del nostro essere, con la quale stabilisce un confronto molto stretto.
In questo film, Almodóvar riprende i temi della malattia, dell'insondabilità dell'essere umano, dell'amicizia e dell'amore. I temi erotici passano sullo sfondo, vengono solo evocati dalle protagoniste mentre diventano più profondi i legami con artisti e figure che hanno segnato la letteratura e la pittura novecentesca, attraverso una vena nostalgica che si stempera nel disincanto della morte. È un fare i conti con il passato senza ansia o eccesso di nostalgia. I cassetti e le scrivanie sono piene di ricordi: un po' da mettere in ordine, un po' da tenere chiusi nei cassetti, altri, foto da appendere alle pareti. Sono soprattutto i ricordi degli anni Settanta e Ottanta che hanno segnato la vita delle protagoniste (e di Almodóvar).
Le due amiche sono per tanti aspetti differenti eppure complementari. L'una una scrittrice che vuole indagare i complicati sentimenti umani e che scrive come atto liberatorio rispetto alla paura della morte. L'altra, inviata di guerra, si trova ad affrontare una "battaglia" con la sua malattia. Il personaggio si riflette nella figura della giornalista Martha Gellhorn (1908-1998), anch'essa inviata di guerra e morta suicida per sfuggire alle pene di una grave malattia.
Le due amiche si incontrano molto tempo dopo che le loro vite si erano allontanate, dopo aver condivido molte cose persino un amore, Damian (John Turturro).
Entrambe si mettono alla prova riguardo alla loro libertà e alle loro paure. Il tema è proprio nel non sopravvivere, se la vita ci è negata nella sua pienezza. L'amica malata, Martha, consapevole della sua imminente morte per cancro, chiede all'altra di accompagnarla verso l'eutanasia, tanto osteggiata e proibita, per vivere i suoi ultimi giorni nella pace, consapevole che il dolore avrebbe invaso il suo fisico, e nello stesso tempo poter morire dignitosamente, non nello strazio dell'annullamento delle facoltà mentali e della lacetazione del corpo.
Le due intraprendono questo cammino. Si attua un processo di grande trasformazione, di maturazione e consapevolezza all'insegna della grande e profonda amicizia. Le due vivranno questi ultimi momenti, prima della decisione finale di Martha, entro una dimensione di sospensione, come in un quadro di Hopper, a indagare le proprie fragilità e i propri desideri, a cercare di dare loro un senso di autenticità, anche contro le violenze e le ipocrisie dei fanatismi e delle leggi.
Un film giocato tutto negli interni - ospedale, casa e villa - in quegli ambienti le due donne ne sono le protagoniste assolute, e la loro trasformazione si coglie attraverso i primi piani, l'inquadratura predominante del film, che ne segna tutte le sfumature del volto, degli sguardi, dello scrutare lo spazio interiore l'una dell'altra.
In questo mondo di vite che si incontrano e si dicono addio, la natura avanza e penetra con la sua costante calma e ripetizione, ad armonizzare il particolare con il tutto, a dare pace.
Il film termina con l'arrivo dell'unica figlia di Martha, Michelle, con cui vi era stato un grande distacco. La figlia rassomiglia tanto alla madre (è interpretata dalla stessa Tilda Swinton) e si riavvicina ad essa nel ricordo. Ingrid in lei ritrova una parte dell'amica con grande affetto.
Almodóvar è sempre Almodóvar
#FSREC99
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