mercoledì 3 settembre 2025

Presentazione 17. Edizione Città delle 100 Scale Festival stampa.

Appunti per la conferenza stampa di presentazione della diciassettesima edizione del Città delle 100 Scale Festival

Chiaramente alcune cose hanno avuto più articolazione altri meno nel corso della conferenza. 

Per seguire il festival trovi il programma sul www.cittacentoscale.it e sui social. 


Questo è davvero un anno particolare. 

Come ho scritto nel manifesto del festival, è l'anno della crisi, nel senso più autentico e pregnante del termine: 

Un crinale e un valico da superare. 

intesa come momento decisivo della scelta e della decisione: un passaggio per setacciare, separare, distinguere e giudicare con criterio

È dunque un'edizione del ricominciamento, con tutte le incertezze, le precarietà e i rischi di fallimento che ciò comporta, pur di non diventare epigoni di noi stessi.

A differenza degli altri anni, non abbiamo scelto parole chiave per incorniciare il festival. In modo volutamente provocatorio, abbiamo preferito il gesto del manifesto, richiamandoci alla tradizione delle avanguardie artistiche che lo utilizzavano per affermare la loro rottura con il passato. 

Noi lo abbiamo scritto per ribadire la necessità di ri-centrare il festival: un atto di resistenza culturale, nel tentativo di trovare risposte alle trasformazioni del mondo che ci circonda e che ci mette alla prova. 

Un impegno, soprattutto, a non lasciare che cultura e teatro perdano il loro senso, piegati a scopi e obiettivi che finiscono per assorbire energie, creatività e riflessione. 


Mi riferisco ai condizionamenti politici, dichiarati o meno; alle forme di mercificazione e banalizzazione comunicativa dell'arte; al dissolversi delle capacità artistiche ridotte a semplice surrogato dello stato sociale. 

In questo senso ho parlato della necessità di avere, talvolta, anche il coraggio dell'abiura — in senso pasoliniano. 

Il punto tocca da vicino anche il rapporto del festival con la città. Alcune pratiche artistiche, che in passato hanno rappresentato una forza di dialogo con l'ambiente urbano, oggi rischiano di non essere più capaci di diventare confronto tra linguaggi artistici e linguaggi della città. 

Quando siamo partiti come festival eravamo redici da una serie di incontri sulla città contemporanea attraverso lo sguardo della filosofia e dell'architettura è proprio allora prendemmo spunto da alcune conversazioni con 

Franco Purini che  sottolineava come la città, più che mai, sia divenuta una complessa macchina linguistica: capace di produrre segnali acustici, olfattivi, tattili, termici e soprattutto visivi, che insieme costruiscono narrazioni stratificate. 

Avevamo pensato che la cittá dovesse, in particolare negli spazi pubblici, intersecare i propri linguaggi con i linguaggi artistici nella possibilità di uno scambio reciproco. Non la città quale banale location

Eppure, sempre più spesso, l'arte è lo spettacolo viene ridotta a ingrediente per la cosiddetta "rigenerazione urbana", che in realtà coincide con processi di gentrificazione, o a mero strumento di attrazione turistica, presentata come panacea di ogni problema economico e sociale. 


In questo modo, l'arte diventa marketing territoriale: piacevole ma innocua, privata della sua tensione trasformativa. Oppure si fa compiacente, perdendo ogni profondità, quella che Mario Perniola chiamava ombra, contro un'arte fatta solo di immediatezza, emozione ed effetto comunicativo. 

L'arte, invece, deve mantenere la propria ombra: ciò che la caratterizza come apertura al mistero e, allo stesso tempo, come possibilità di mondi altri, di immergersi anche entro le contraddizioni dell'umanità, senza ideologie ma con uno sguardo profondo, partecipativo e critico.

Per questo abbiamo pensato di tornare alle origini, non in senso nostalgico. Il termine va inteso piuttosto in senso benjaminiano: nel nucleo originario, nella memoria che non è rimpianto, scoprire le possibilità rimaste inespresse. 


Abbiamo quindi ripreso la parola teatro, a partire dalla sua radice linguistica: 

θέατρον, il "luogo da cui si guarda". 

Uno sguardo che non si accontenta, ma interroga, indaga, scorge ciò che ancora non è visibile. Uno sguardo che salva, non perché evade la realtà, ma perché ne rivela la possibilità più radicale. 

Naturalmente, ogni nuovo inizio comporta il rischio del fallimento. Ed è un rischio tanto più grande in un mondo che mette al primo posto quantità e valore economico. Un rischio che tocca soprattutto quelle forme artistiche e quei festival, come il nostro, che scelgono di lavorare con i giovani, con linguaggi non immediati, con modalità diverse di stare insieme e di fare arte. 

Viviamo in un'epoca segnata da un populismo al ribasso, che attraversa tutta la politica e che si schiera sempre più spesso dalla parte di un economicismo fine a sé stesso. Una politica incapace di aprire spazi di autonomia, di offrire possibilità di sperimentare e fare esperienza, di investire su un futuro aperto all'indeterminatezza, preferendo invece un presente che gratifica ma non critica. 

E sappiamo bene che, in questo contesto, termini come "esclusione", "muri", "deportazione" si sono trasformati in fatti concreti, sostenuti da conformismo e accondiscendenza. 

Un segnale evidente lo vediamo nell'atteggiamento di tanti amministratori, di destra e di sinistra, che si entusiasmano per sagre e concerti estivi, ma non investono nelle istituzioni culturali: musei, teatri, sale da concerto, luoghi di formazione e di produzione artistica. 

Se questi sono i tempi, l'unica cosa che possiamo affermare è questa: non ci resta che resistere. 


Nessun commento:

Posta un commento