sabato 22 novembre 2025

Perché Hannah Arendt?



Sotto i miei appunti (estesi) di presentazione dell'incontro con la professoressa Rosalia Peluso dal titolo "Dark times: Hannah Arendt e la crisi", tenuto presso il Liceo classico di Potenza, venerdì 21 novembre 2025 nell'ambito del Città delle 100 Scale Festival diciassettesima edizione.


Perché Hannah Arendt?


La figura dell'Arandt è complessa, è una filosofa che ha contribuito in modo decisivo al pensiero del novecento per vari aspetti, così come è stata un punto di riferimento per il femminismo. 


Per quanto ci riguarda, come festival, le motivazioni provengono proprio dall'attualità, da una esigenza impellente, che ci ha portato a realizzare questo focus sulla Arendt, che oltre all'l'incontro di oggi, prevede lo spettacolo teatrale di e con Anna Gualdo tratto da "La banalità del male e la visione del film della Margarete Van Trotta: Hanna Arendt


Perché allora Hannah Harendt?


In Tra passato e futuro Hannah Arendt usa una metafora molto efficace per descrivere la condizione del pensatore chiamato a fare un esercizio di comprensione del tempo presente. 


La filosofia - dice - se è un pensiero politico capace di cogliere il senso profondo dell'attualità, non può abitare il presente come se si trattasse di un tempo statico: l'attualità è percepita come un'epoca stretta tra passato e futuro.


Viviamo in un mondo che muta rapidamente nei suoi equilibri globali, attraversato da conflitti, crisi politiche, trasformazioni tecnologiche e culturali profonde. 


In questo scenario, confrontarsi con l'Arendt significa introdurre nella discussione pubblica un vocabolario diverso in riferimento alla politica.


Perché l' Arendt ci invita a ripensare la politica a partire dalla "polis", cioè dallo spazio dell'incontro tra esseri umani, dalla relazione, dalla parola e dalla comunicazione. 


Sono elementi fondamentali che si contrappongono o si pongono in alternativa alle categorie amico/nemico, alle logiche di confine e al ricorso alle definizioni identitarie rigide come la razza o l'appartenenza "chiusa" entro un gruppo, una comunità etnica, ecc.)

una prospettiva capace di liberarci dalla trappola della geopolitica intesa come semplice gioco di potenze, dalla logica della forza e dai sussulti della guerra.



Per Arendt la politica è autentica solo quando è esercizio della pluralità: non esiste politica senza gli altri, senza la capacità di apparire insieme nello spazio pubblico e di costruire senso comune attraverso l'azione e il discorso.


Al centro del pensiero arendtiano vi è un nucleo profondo, sviluppatosi nel corso della sua vita e alimentato da esperienze personali drammatiche: la fuga dal nazismo, l'esilio, la riflessione sulla perdita dei diritti fondamentali da parte degli apolidi e dei rifugiati, l'osservazione diretta degli effetti devastanti dell'ideologia totalitaria. Queste esperienze l'hanno costretta a misurarsi con la questione del "male", un tema che attraversa tutta la sua opera. 

Per Arendt il male non è una forza metafisica e insondabile: esso può radicarsi e operare quando il rapporto tra individuo e società si incrina e quando la politica smette di essere luogo di libertà per trasformarsi in uno spazio di dominio, paura e obbedienza.


Tra i testi più significativi dedicati a questi temi ricordiamo "Le origini del totalitarismo", un'opera monumentale attraverso cui Arendt analizza i processi che hanno reso possibile, nel cuore dell'Occidente moderno, la nascita di regimi fondati su una razionalità distruttiva. Arendt avverte che le categorie politiche allora prevalenti – in particolare quelle ereditate dal contrattualismo moderno e dal marxismo – non erano più sufficienti per comprendere fenomeni come il nazismo e lo stalinismo. Bisognava andare oltre, interrogarsi su come, in una civiltà che celebrava il progresso, potesse aprirsi una voragine tale da consentire al male di manifestarsi e operare attraverso strutture statali, apparati burocratici e tecnologie di dominio.


Il campo di concentramento, nelle sue analisi, diventa l'emblema di un potere che si arroga il diritto di decidere arbitrariamente della vita e della morte, cancellando l'individualità, la spontaneità e la dignità umana. È la forma estrema di un sistema che mira alla distruzione della persona come essere unico e irripetibile.


A partire da queste domande – filosofiche, politiche e morali – Arendt sviluppa una delle sue riflessioni più celebri: quella sulla "banalità del male", formulata nel libro "Eichmann a Gerusalemme. Osservando da vicino Adolf Eichmann durante il processo, Arendt non vede un mostro sanguinario, ma un uomo ordinario, mediocre, incapace di pensare. Ed è proprio questa incapacità di pensare, di mettersi nei panni dell'altro, di interrogare le conseguenze delle proprie azioni, a rendere possibile il male.


Eichmann non agisce per fanatismo o crudeltà personale, ma perché perfettamente integrato in un sistema gerarchico che gli chiede solo obbedienza, efficienza, adesione meccanica a un ordine. Qui Arendt individua un pericolo universale: quando l'uomo rinuncia al pensiero critico e si lascia assorbire dalla macchina burocratica, la sensibilità morale si corrompe e diventa possibile compiere azioni disumane senza percepirne la gravità.


Il riferimento a Kant: il giudizio come facoltà politica e morale


In questa riflessione Arendt si confronta profondamente con Immanuel Kant, in particolare con la sua Critica del giudizio. Arendt riprende da Kant l'idea che il giudizio non sia semplice applicazione di regole, ma un'attività del pensare che richiede di "pensare ampliato", cioè di considerare il punto di vista degli altri.


Per Kant, giudicare significa uscire dal proprio punto di vista ristretto e immaginare come la nostra azione apparirebbe a una comunità più ampia. Arendt fa sua questa intuizione, interpretandola politicamente:


chi giudica, per Arendt, esercita la facoltà di immaginarsi nella pluralità;

il giudizio diventa così un gesto eminentemente politico, perché ci ricorda che viviamo tra altri, e che solo mettendoci in relazione possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto.


Per questo Arendt sostiene che Eichmann non fu un "mostro" ma un uomo incapace di giudicare: non seppe assumere il punto di vista dell'altro, non riuscì a interrogare sé stesso con domande morali elementari. La sua incapacità di giudicare – nel senso kantiano – rese possibile la sua partecipazione al male.


Un'eredità per il presente


Queste riflessioni ci portano a considerare alcune domande essenziali (già formulate nel passato): 

qual è l'esito della cultura occidentale e quali sono le condizioni politiche, sociali e psicologiche che possono condurre una società a deviare verso forme di convivenza degradate, in cui gli esseri umani vengono classificati e trattati secondo categorie etniche o razziali?


Il lavoro di Hannah Arendt ci ricorda che il totalitarismo non è un evento confinato al passato, ma una possibilità sempre presente quando si indebolisce la pluralità, quando il discorso pubblico si appiattisce, quando la responsabilità personale viene sacrificata sull'altare dell'obbedienza e della sicurezza.


Tornare a leggere Arendt oggi significa imparare a vigilare, a proteggere gli spazi della libertà e del confronto, a mantenere vivo il pensiero critico. Significa riaffermare che la politica non può mai essere ridotta a una gestione tecnica del potere, ma è prima di tutto un'esperienza condivisa tra esseri umani che, agendo e parlando insieme, costruiscono il mondo comune.


Il suo invito è chiaro e profondamente attuale: "solo coltivando la pluralità, il dialogo, il pensiero critico e la capacità di giudicare possiamo resistere alla banalità del male e preservare 

la dignità dell'umano. 



Questa sera 

la professoressa Rosalia Peluso in questo incontro significativamente intitolato: 

Dark times: Hannah Arendt e la crisi

raccoglie l'eraditá dell'Arendt a partire dal confronto che la Arendt aveva intrapreso con Kant per una "sua riscrittura" di una "Critica del giudizio". Un eredità che è un monito, un impegno civile.


"Giudicare - Scrive Rosalia Peluso - è una facoltà mentale che ci aiuta a orientarci nei 'tempi bui', e a mettere a fuoco il tema della crisi, che è costitutivo dell'esperienza moderna

Il paradigma arendtiano della "assenza di giudizio" costituisce un ausilio indispensabile per leggere e interpretare le contraddizioni, il disagio, le violenze del mondo contemporaneo".


Rosalia Peluso è professoressa associata di Filosofia teoretica dell'Università di Napoli Federico II. Il suo principale tema di ricerca è la teoria della conoscenza e i suoi autori di riferimento sono Hannah Arendt, Benedetto Croce e Walter Benjamin. A loro ha dedicato diversi libri e articoli. Di Arendt, in particolare, ha curato le edizioni italiane degli scritti su Karl Jaspers e Rosa Luxemburg

Le foto sono di Paola Guglielmi. 

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